La morte in foiba : il racconto di un sopravvissuto

Dalle esecuzioni nelle foibe qualcuno uscì miracolosamente vivo. Uno dei pochissimi casi conosciuti è quello del protagonista di questo racconto, che si riferisce a un episodio accaduto nei pressi di Albona nell’autunno del 1943.




Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentì uno dei nostri aguzzini dire agli altri:< Facciamo presto, perché si parte subito >.Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico fil di ferro, oltre quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo solo i pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze.

Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi .Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera.

Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accdde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me.

La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole - Un’altra volta li butteremo di qua , è più comodo -pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo.



Nel manicomio di Lubiana: la testimonianza di un reduce.


La testimonianza che segue è tratta dalla relazione di un ufficiale di Marina Italiano detenuto a lungo nell’ex manicomio di Lubiana.




Il 26 giugno fummo messi tutti assieme in una cella misurante 7 metri per 14. Eravamo in 126[…]

A capriccio dei secondini di servizio venivamo chiamati fuori dalla cella , a turno, alcuni di noi, e senza alcuna ragione plausibile, venivano fatti segno a colpi di mitra , pugni e schiaffi […] L’acqua, eravamo in luglio, veniva misurata; cinque o sei sorsi a testa al giorno.Divieto assoluto per usare acqua per lavarsi. IL cibo costituito da verdura secca bollita produsse ben presto tra di noi l’insorgere di diarrea.Negata ogni assistenza sanitaria […].

Il 23 dicembre 1945, a sera, una trentina di noi vennero stralciati dal gruppo in base ad in elenco prestabilito, legati con le mani dietro la schiena a mezzo di filo di ferro e trasportati ad ignota destinazione con dei camions. L’indomani mattina gli automezzi fecero ritorno recando indumenti che noi riconoscemmo come già appartenenti ai nostri compagni partiti la sera innanzi. Ai nostri occhi tale fatto assunse l’aspetto di un macabro indizio. Il 30 dicembre un’altra trentina di noi subiva la stessa sorte, seguiti il 6gennaio 1946 da un terzo ed ultimo scaglione di 36 persone[…]

Nel frattempo erano morti Z. e B. Successivamente anche i tre della cella vicino alla nostra cessarono di vivere uno alla volta. Ricordo con particolare raccapriccio il povero B ( un ragazzo triestino di 18 anni facente parte della brigata"Venezia Giulia" del corpo Volontari della Libertà) ridotto ad un pietoso relitto umano da un infezione che non gli era mai stata curata. Negli ultimi giorni della sua vita rassomigliava di più ad un vecchio decadente che ad un ragazzo della sua età. La notte in cui morì udimmo gridare a lungo invocando la mamma. Quando si fece silenzio arguimmo la sua morte perché si sentì battere violentemente alla porta della cella vicina per chiamare la guardia di servizio. Poco dopo, dal tramestio che ci era perfettamente intelleggibile in tutti i suoi particolari, sapemmo che il povero B era stato tratto fuori dalla cella e temporaneamente situato nel cesso posto di fronte ad essa.







(da: "Storia e Dossier", n. 116, maggio 1997).

Salvo per miracolo

(testimonianza di Graziano Udovisi)




Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gridò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull’orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: ara arrivato il momento di morire.

Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mo consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c’è l’umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all’orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano.

Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria, nell’ex palestra della scuola. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull’orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più.

Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in un ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Per picchiarci ci trasferiscono in una stanza più grande dove un uomo gigantesco comincia a pestarmi. "Maledetti in piedi! " strilla l’Ercole slavo. Vedo entrare due divise e in una delle due c’è una donna. Poi giro lo sguardo sui i miei compagni: hanno la schiena che sembra dipinta di rosso e invece è sangue che sgorga. "Avanti il più alto", grida il gigante e mo prende per i capelli trascinandomi davanti alla donna. Lei estrae con calma la pistola e col calcio dell’arma mi spacca la mascella. Poi prende il filo di ferro e lo stringe attorno ai nostri polsi legandoci a due a due. Ci fanno uscire. Comincia la marcia verso la foiba.

Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", uno slogano che ripetono ad ogni piè sospinto. Io, appena sento l crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba.

Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All’improvviso le mie dita afferrano una zolla d’erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. L’unico italiano, ad essere sopravvissuto alle foibe. Si chiamava Giovanni, "Ninni" per gli amici. È morto in Australia qualche anno fa.










(da: Arrigo Petacco, L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, A. Mondatori, Milano 1999).

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