66°Anniversario

IN RICORDO DEL RASTRELLAMENTO DEL 29 NOVEMBRE 1944



Un ricordo dell'ANPI SARZANA

L’ obiettivo primario del rastrellamento era quello di distruggere le due Brigate Garibaldi operanti sul territorio, la “Ugo Muccini” e la “Gino Menconi”, e la “II Carrara” di ispirazione azionista.

Un rastrellamento, quindi, certamente studiato da tempo e, probabilmente, favorito dalla situazione in cui si trovavano in quel momento le formazioni partigiane, che dal 13 novembre 1944 erano state formalmente invitate a sospendere l’ attività dal generale Alexander.

Un’ azione che, in realtà, si protrasse ben oltre quella singola giornata, concludendosi a Massa circa una settimana dopo e per la quale furono impiegati migliaia di soldati della Wehrmacht (sempre condotti dalle Brigate Nere locali).



All’ alba del 29 novembre 1944, nella Lunigiana interna, alcune staffette avvistarono un numero insolito di soldati nemici che si apprestavano a risalire le colline fosdinovesi, lungo la direttrice della “Spolverina” (la statale che collega l’ Alta Lunigiana con Carrara e Massa). Intanto, nella bassa Val di Magra, i tedeschi stavano formando un cordone di lunghezza inimmaginabile, che lungo la Via Aurelia si dispiegava da Santo Stefano Magra (SP) fino ai confini con Carrara: l’ accerchiamento era compiuto.



Dopo aver combattuto l'intera giornata i comandanti dei Distaccamenti della Brigata Garibaldi “Ugo Muccini” si ritrovarono, nella notte, a Giucano (Fosdinovo) e decisoro per lo “sganciamento” a piccoli gruppi, poiché in tal modo sarebbe stato più facile sottrarsi all’ accanimento nemico.

«Se si fosse trattato di un normale attacco, avremmo reagito diversamente», dice Paolino Ranieri “Andrea”, Commissario Politico di Brigata, «ma così non c’ erano vie di scampo. Allora abbiamo deciso che io e il Vice Comandante “Walter”, Flavio Bertone, ci saremmo fermati sul posto con pochi uomini, mentre il Comandante “Federico”, Piero Galantini, avrebbe guidato i distaccamenti verso l’ unica direzione possibile».



Sotto i fitti bombardamenti tedeschi, provenienti dai fortini militari di Punta Bianca e Bocca di Magra, quasi tutta la Brigata si riversò nella Val d’ Isolone, soprattutto nel paese
di Gignago, territorio che in quel momento era controllato capillarmente dall’ «Ubaldo Cheirasco» di “Orti”. «Gignago - racconta quest’ ultimo - fino al 29 novembre era
considerato una fortezza inespugnabile. Avevamo diffuso la voce che il territorio circostante fosse minato, mentre facevamo esplodere dei semplici petardi».



Le speranze di salvezza erano sostanzialmente due: trovare un rifugio che garantisse sicurezza per diversi giorni; sfuggire all’ accerchiamento incamminandosi verso la Li-
nea Gotica, lungo la quale da diversi mesi si era attestato il fronte di avanzamento degli eserciti alleati.


La prima scelta fu praticata soprattutto dai civili, alcuni sfruttando delle vere e proprie “tane” preparate da tempo in previsione di un attacco del genere, altri inventandosi qualcosa lì per lì.

C’ è chi ha passato giornate intere dentro una botte sotterrata mentre la moglie, facendo finta di tagliare dell’ erba, gli portava informazioni sui movimenti del nemico. Altri avevano scavato dei fossati attorno alla propria casa, lunghi abbastanza per accogliere decine di persone. Rifugi preparati da tempo, per una vita nella clandestinità, «che era terribile» dice Nella Marchini, che passò quella notte a cuocere frittelle per i partigiani che passavano dalla sua casa, «ma dalla quale, senza l’ aiuto delle spie, non avrebbero tirato fuori nessuno».



La Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, che era di Carrara, aveva a disposizione le cave di marmo delle Alpi Apuane, un territorio che se durante l’ anno costituiva un problema per gli approvvigionamenti («qui c’ era solo marmo e il marmo non si mangia mica!», dice Anna Maria Vignolini, staffetta, in un’ intervista conservata presso il Museo Multimediale della Resistenza di Fosdinovo (MS) ), in frangenti come questo garantiva l’ impenetrabilità di fronte a qualsiasi tipo di attacco.


Tanto che Ernesto Carpini, “Lo Spezzino”, decise di fermarsi da solo con la sua MG 42 nei pressi di Codena, ad aspettare l’ arrivo dei tedeschi. Tenne la postazione per ore,
consentendo ai compagni che poco prima erano con lui di incamminarsi verso le cave. Poi, come forse anche lui si aspettava quando prese quella decisione, fu sopraffatto ed ucciso dai nemici.



Ad avviarsi verso i “territori liberati” fu, invece, il grosso della Brigata Garibaldi “Ugo Muccini”, che era di Sarzana e se prima del rastrellamento contava quasi mille uomini dopo dovette ripartire da poche decine. Turiddo Tusini, “Volga”, ricorda le guide ad aspettarli ad Antona, l’ attraversamento del passo dell’ Altissimo con la neve e il terreno minato, i mortai tedeschi che li bersagliavano. «Giunti fuori dal loro tiro, trovammo dei soldati neri americani che, dopo averci frugato, ci caricarono su un carro bestiame, diretti nei centri di raccolta profughi».


Bruno Brizzi, “Nino”, il 29 novembre non era sul territorio, tornò il 2 dicembre per trovare la sua gente allo sbando, ma anche per continuare le sue azioni notturne in compagnia dell’ amico “Carlin”, Nello Masetti.

«Ci vestivamo da tedeschi, con vestiti presi ai nemici catturati, poi andavamo a fare puntate fin sull’ Aurelia. Eravamo in giro così ogni notte. Roba da farsi ammazzare!».



Intanto, tra i civili, si stava consumando l’ altro aspetto, l’ altra tragedia del rastrellamento: i catturati, dopo essere stati radunati, venivano scelti in base all’ età e alle condizioni di salute; per chi superava questa prima selezione, c’ era l’ ex colonia “Italo Balbo” di Marinella (SP) trasformata per l’ occasione in centro di permanenza temporaneo; da lì, se non si veniva giudicati fin troppo giovani da un tedesco o da una Brigata Nera (ma era un rischio remoto, dato che i quindicenni erano già arruolati), si ripartiva alla volta di Genova dove, una volta caricati su carri bestiame, si veniva spediti in Germania, a Turkheim, nei pressi di Monaco e di Dachau, per diventare la nuova forza lavoro del Terzo Reich.

Guglielmo Pucci all’ epoca aveva sedici anni, era di Massa e aveva dovuto sfollare nella Val d’ Isolone. Ricorda ancora quando, nella piazza centrale di Castelnuovo Magra, durante la prima selezione lo separarono da suo padre, e ricorda i vani tentativi di sua madre per convincere le guardie della “Italo Balbo” a rilasciarlo, perché troppo giovane. Avrebbe fatto ritorno a casa soltanto nel giugno del ‘ 45.



Il 29 novembre 1944 segnò una svolta per la Resistenza apuana e lunigianese.

Ripresasi dal trauma, durante l’ inverno la “Muccini” cominciò a ricostituirsi «riallacciando i rapporti con la popolazione, recuperando chi era andato a nascondersi e trovando nuove leve per sostituire chi aveva superato il fronte», spiega Paolo Ambrosini, “Gurj”, uno dei pochi a fermarsi, «il tutto sotto la guida del nostro nuovo Comandante “Walter”».

«Sembrava che tutto fosse finito, invece poi scoprimmo che non tutto era finito», fa ancora in tempo a dire “Volga” prima che Wanda Bianchi, “Sonia” il suo nome da staffetta, chiuda così: «Mio padre mi diceva che non dovevo perdermi d’ animo - vedrai che ce la facciamo - continuava a ripetermi. Io, per la verità, dopo il rastrellamento mi ero un po’ persa. Il giorno dopo, però, quando sono tornata ai monti ho visto che qualcuno c’ era ancora, e che stavano cercando di riorganizzarsi.


Allora ho pensato che forse aveva ragione lui. Certo, la lotta dopo è diventata più dura, i rastrellamenti erano sempre più frequenti e le Brigate Nere, chi prendevano, li massacravano sempre di più. Però, alla fine, ce l’ abbiamo fatta».

dal sito Viceversa

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