IL PROCESSO DI NORIMBERGA









IL TERZO REICH MUORE IN PALESTRA di Enzo Biagi



Sono passati tanti anni, 20 novembre 1945. A Norimberga molte case erano senza muri esterni; si vedevano letti, armadi, cucine. Gran parte della gente viveva negli scantinati. C'erano montagne di macerie che il gelido inverno tedesco copriva di neve. Racconta Kenneth Mattews, corrispondente della BBC, che sui marciapiedi vagavano Fräulein disperate, pronte ad offrirsi per un pacchetto di sigarette. I giornalisti erano alloggiati allo Schloss Faber, un castello che apparteneva a quei signori delle matite: dormivano tutti in uno stanzone; i giudici stavano al Grand Hotel, sistemato alla svelta dai genieri.

Gli imputati erano ventiquattro: tre, però, mancavano all'appello. Il dottor Robert Ley, capo del Fronte del lavoro, si era impiccato, con un pezzo di lenzuolo, allo scarico d'acqua del gabinetto; di Martin Bormann non si è più saputo nulla, scomparso nel disastro di Berlino; Gustav Krupp era gravemente malato.

Trovarono «il grasso Hermann» molto dimagrito: trentacinque chili di meno. Gli avevano tolto la morfina e doveva stare alle regole di una alimentazione controllata. Ma si dimostrò subito il più deciso, dominava la situazione. Disse al colonnello Andrus, direttore del carcere: «Non dimenticate che avete a che fare con figure storiche».

Hermann Göring si era consegnato agli alleati con la sua Mercedes bianca, dai cristalli a prova di pallottola, e la intera corte: chef, valletto, maggiordomo, aiutanti e molti bauli che contenevano uniformi da cacciatore, da comandante supremo della Luftwaffe, da presidente del Reichstag.

Per avere insultato un testimone gli proibirono per due settimane il tabacco e la passeggiata, ma non si smarrì. Aveva dato disposizioni ai camerati: «Mai nominare Hitler». La sua deposizione durò tre giorni, e secondo i cronisti mise in difficoltà il Procuratore. Teneva in mano un cartellino sul quale aveva scritto: «Dolcemente. Respirare. Calma. Contegno». Concluse: «La nostra sola colpa è di avere perduto». Schiacciò, come Himmler, la fialetta di cianuro.

Anche Himmler aveva deciso di togliersi di mezzo. Si era rivolto all'ufficiale che lo teneva in consegna con tono lamentoso: «Ma se mi toglie i vestiti, con che cosa mi coprirò? Non posso morire in uniforme inglese». La Military Police trovò poi in una stanza sconvolta il cadavere di un ometto calvo, obeso, la pelle gialla; in una mano stringeva gli occhiali. Notarono sulle labbra sottili delle schegge di vetro. «Voglio dedicare la mia esistenza a riabilitare la sua memoria» mi ha detto Gudrun, l'unica figliola. Un compito impegnativo.

Mancava Goebbels, e mancava Martin Bormann, braccio destro del Führer, capo della Cancelleria. Stava nel bunker: sparito. Joachim von Ribbentrop lo pescarono ad Amburgo, in una pensione: si faceva chiamare Riese. Stava a letto con una giovane donna. Aveva nervi fragili e cedimenti improvvisi. Disse al dottor Gilbert che lo esaminava: «Lei è uno psicologo; mi risponda dunque francamente: qualcuno di noi assomiglia a un assassino?».

Tutti gli accusati vennero sottoposti a un test: il più intelligente risultò il vecchio Hjalmar Horace Schacht, quoziente 143. Lo conobbi che aveva già passato gli ottantacinque, ed era presidente di una banca di Düsseldorf: lo sguardo duro dietro le lenti, l'aria assorta. L'unico che, sul banco degli imputati, rideva. «Sa perché?» mi spiegò: «Ero sorpreso, amareggiato, deluso, ma ridevo ugualmente della stupidità degli americani. Sono stato in trentadue Lager, anche nel campo di annientamento di Flossenburg. Il mio ragazzo è caduto in Russia. Ho riso a Norimberga. Io, in quel posto. Certo, la compagnia non era buona, ma [Franz] von Papen e [Konstantin] von Neurath, ad esempio, erano dei gentiluomini».

C'era Hans Frank, governatore a Varsavia, lo chiamavano «il re di Polonia», e stava vivendo la sua grande crisi. Confidava: «A Dio non si può nascondere la verità». Quando lo arrestarono stava ascoltando la Passione secondo Matteo di Bach. Era stato corrotto, diceva, dal gusto del potere. Ministro a trent'anni. «Ci deve essere un demonio dentro di me» confessava «dentro a ogni uomo».

L'ammiraglio Karl Dönitz si era presentato con dodici valigie; gliene lasciarono una. Mentre si allontanava dalla sua nave, la Vaterland, marinai e soldati gli rendevano gli onori. Durante l'ora dei pasti si consultava col collega Raeder e coi generali [Whilelm] Keitel e [Alfred] Jodl. Stavano tra di loro.

[Rudolf] Hess vaneggiava; Streicher, il persecutore degli ebrei, faceva ginnastica ogni mattina completamente nudo; Baldur von Schirach, capo della Hitlerjugend, scriveva poesie per la moglie Henriette: «Non ci rendemmo conto della felicità che ci appartenne e che ora è distrutta, il presente è minacciato, il passato non ritorna più». C'era Albert Speer, architetto, responsabile degli armamenti, che disegnava anche sulle pareti, e le guardie protestavano.

I camion avevano trasportato 1100 tonnellate di documenti. Alla prima solenne udienza ne seguirono quattrocentosei. L'atto di accusa, di cui venne data subito lettura, consisteva in un fascicolo di settanta pagine, trentamila parole in tutto. Alla fine, gli interrogatori vennero raccolti in quarantadue volumi. Ci furono aspre discussioni: «Nullum crimen, nulla poena sine lege», affermavano i sostenitori della illegalità: non si poteva giudicare secondo un codice messo in vigore in quel momento. Poi, alcuni capi di imputazione dovettero essere stralciati: se gli aerei nazisti avevano colpito le città, la U.S. Air Force aveva distrutto proprio Norimberga. Inopportuno parlare di aggressioni: tedeschi e russi si erano spartiti la Polonia, gli anglo-francesi avevano tentato di invadere la Norvegia, ma la Wehrmacht era stata più svelta. E poi, si era mai pensato di far causa a Napoleone o a Guglielmo II? La stampa era divisa: «Non è possibile essere nello stesso tempo giudice e parte in un processo» scrivevano.

Durò dieci mesi il dibattimento. Qualcuno conservò la sua fierezza. Disse Jodl: «Uscirò tenendo la testa alta come quando sono entrato. L'ubbidienza alla propria patria è sopra ogni cosa». Disse Ribbentrop: «Per me il Führer rimane colui che fece grande la Germania. Lo servii e gli rimasi fedele. Non posso urlare: crocifiggetelo. Ieri ho urlato: Osanna». Disse Raeder: «La nostra flotta inalbera una bandiera senza macchia. Sono convinto che gli ammiragli delle forze alleate mi capiscono, e sanno di non avere combattuto contro un delinquente».

Il primo giorno di ottobre del 1946 il presidente del Tribunale internazionale, lord Geofrey Lawrence, lesse la sentenza. La sua voce non aveva vibrazioni, il silenzio dominava. Dodici condanne per impiccagione, death by hunging [Göring, von Ribbentrop, Rosenberg, Streicher, Kaltenbrunner, Frank, Sauckel, Seyss-Inquart, Frick, Keitel, Jodl, Bormann (in contumacia)], tre ergastoli [Raeder, Funk, Hess], vent'anni a von Schirach e a Speer, quindici a von Neurath, dieci a Dönitz. Schacht, von Papen e Fritsche assolti. La corte aveva deciso a maggioranza.

L'esecuzione fu fissata per la notte del 16. Otto inviati speciali, estratti a sorte, poterono assistere. Tre gigantesche forche vennero issate in una palestra, la parte del boia toccò a un sergente americano, John Wood, che se ne è andato all'altro mondo collaudando una sedia elettrica; aveva deciso di continuare il mestiere, e per scrupolo professionale volle procedere a un collaudo di persona: la macchina funzionò perfettamente. Alla fine disse: «Dieci in centotré minuti. Un lavoro perfetto».

Frick gridò: «Viva la Germania immortale», Streicher: «Viva Hitler»; Sauckel: «Sono innocente. Che Dio protegga la Germania e la mia famiglia»; Jodl: «Ti saluto, Germania mia»; Seyss-Inquart: «Spero che questo sia l'ultimo atto della tragedia che è stata la seconda guerra mondiale».

La sentenza doveva insegnare alcuni principi, che poi hanno avute poche applicazioni: non basta per rendere lecita un'azione malvagia l'ordine superiore; il soldato ha il dovere di ribellarsi piuttosto che compiere gesti inumani. Non esistono più autorità che non possano essere chiamate a rispondere delle loro scelte. Ma in Indocina, in Algeria e nel Vietnam non sono stati applicati. Neppure i carri armati sovietici, spediti da Breznev come «aiuto fraterno» a Praga, possono rientrare in quello spirito di pace che doveva illuminare il verdetto pronunciato nell'aula di Norimberga.



ENZO BIAGI, 1989

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