Il 16 agosto viene ritrovato il cadavere di Giacomo Matteotti
Claudio Fracassi ripercorre i sette mesi che sconvolsero l’Italia
La cosiddetta pistola fumante, la prova regina, posto che sia esistita, non è mai stata trovata. Almeno niente di esplicito quanto il telegramma inviato da Benito Mussolini al prefetto di Torino, mettendo nel bersaglio Piero Gobetti e raccomandando di «rendere difficile vita questo insulso oppositore fascismo»: invito interpretato con grande zelo e che provocò ripetuti pestaggi, fino alla morte dell’intellettuale liberale. Insomma, nessun testo scritto (come la minuta autografa di quell’ordine, conservata dal segretario di Palazzo Venezia) lega il Duce all’assassinio di Giacomo Matteotti. Eppure la massa di testimonianze e indizi che si concentrarono su di lui fu tale da incatenarlo quasi subito al sospetto d'essere il mandante del delitto. Per molti, mandante con una responsabilità più che morale. Segna una linea d’ombra così tenace, quel filo, da riaffiorare adesso - ottant’anni dopo - con le stesse suggestioni che turbarono gli italiani il giorno dell’omicidio. E’ un’ipotesi che resiste per la concreta ragione che l’uno era l’incubo dell’altro, essendo il leader socialista l’unico uomo politico che avesse il coraggio, l'intransigenza e la lucidità per ostacolare seriamente un progetto già pronto a sfociare in regime. L’unico antagonista che non sarebbe arretrato in nessun caso, per quanto prevedesse la propria fine («Io il mio discorso l’ho fatto, ora sta a voi preparare l’orazione funebre per me», disse il 30 maggio 1924 ai suoi compagni, dopo aver pronunciato un durissimo atto d’accusa a Montecitorio), come emerge dalle pagine di Matteotti e Mussolini , di Claudio Fracassi, giornalista e studioso del fascismo.
La tesi serpeggiante nel libro, costruito con il ritmo di un thriller e documentato come un saggio, è che Mussolini istigò il delitto. Che lo avallò, precostituendosi anche un alibi politico con una finta apertura all’opposizione. Che incoraggiò poi qualche depistaggio, mentre recriminava sulla maldestra esecuzione. Che protesse gli assassini quando furono scoperti. Che ne pagò il silenzio con denaro sonante, subendo per anni la minaccia che la verità (affidata a un memoriale depositato presso uno studio legale in America) fosse rivelata.
Spira un’aria strana in Italia, nel 1924, due anni dopo la marcia su Roma. Il Paese, non ancora fascistizzato, è in bilico tra democrazia liberale e autoritarismo. Da un lato le camicie nere tentano d’imporre la loro rivoluzione con violenze sempre più ostentate, tanto che l’ultima campagna elettorale risulta inquinata da duemila «gravi episodi di sopraffazione». Dall’altro lato la classe dirigente e larghi settori dell’opposizione si rifugiano nell’illusione che quello in corso sia «un esperimento provvisorio» e sperano che il Duce si converta al metodo democratico.
Su questo piano inclinato tutto precipita il 10 giugno, con il delitto. A compierlo è la «Ceka del Viminale», un gruppo segreto di squadristi reclutato dal ministero degli Interni e guidato da Amerigo Dumini. L’uomo chiave è lui: anello di congiunzione tra certi affaristi del regime, dichiara di avere 11 omicidi alle spalle ed è assiduo nelle sedi del partito e a Palazzo Chigi, dov’è accolto «con grande confidenza». Il dittatore lo conosce bene: gli ha già affidato diverse spedizioni punitive per difendere il fascismo con la violenza «chirurgica e intelligente» che rivendica come necessaria. Tanto che ormai intima agli avversari di «sottomettersi o perire».
«Che cosa fa la Ceka? Che fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare», dice Mussolini al suo capo ufficio stampa, Cesare Rossi - che verbalizzerà a futura memoria questo e altri colloqui -, all’indomani della denuncia di Matteotti alla Camera. E’ il genere di incitazione che non lascia equivoci, tra i sottopancia del Duce: il caso va risolto in via definitiva.
Passano dieci giorni ed ecco il delitto. Solo che i cinque killer si lasciano dietro parecchie tracce. Troppe, per non essere raccolte da forze dell’ordine, magistratura e giornali, contropoteri sui quali i fascisti non hanno ancora il pieno controllo. Un’ondata di sdegno percorre l’Europa. Luigi Albertini, direttore del Corriere , scrive: «E’ in questo ambiente di compressione e di intoller anza, non dominato ma favorito dalle più alte sfere, che sono maturati i propositi e gli atti più criminosi. Ed è stato un crescendo continuo: dall’olio di ricino alla bastonatura, dalla bastonatura alla soppressione di figure non di prima linea, finché si è osato arrivare più su, levar di mezzo in piena Roma, alla luce del sole, un capo socialista (...) credendo di passarla franca come altre volte». Il capo delle camicie nere è nel panico e sotto ricatto. Matteotti morto condiziona gli eventi più di Mussolini vivo e soltanto la Corona, nella quale gli «aventiniani» vanamente confidano, salva il regime.
Il saggio di Fracassi è il diario di sette mesi angosciosi, al termine dei quali l’Italia si consegna alla dittatura. Un racconto che illumina due scenari sui quali si sono a lungo esercitati gli storici. C’è la pista politica, che rimanda alla prassi criminale già molto praticata nel primo fascismo. E c’è la pista affaristica, che puzza di petrolio e tangenti. La conclusione è che l’una non esclude l’altra, e che entrambe si incrociano spesso sul nome di Mussolini. Il quale chiude la questione davanti al Parlamento, il 3 gennaio 1925, mettendo una pietra tombale sulla democrazia: «Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato».
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Marzio Breda Il libro di Claudio Fracassi «Matteotti e Mussolini. 1924: il delitto del Lungotevere» (pagine 496, 18,60) è edito da Mursia
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