Ufficiale e gentiluomo Salvava gli equipaggi delle navi che affondava
Gian Ugo Berti
LIVORNO. Il 14 dicembre 1942 moriva davanti alla costa tunisina Salvatore Todaro, capitano di corvetta, a bordo del motopeschereccio Cefalo, colpito da una raffica di mitragliatrice esplosa da un aereo inglese. Aveva 34 anni. Siciliano di nascita, Todaro era legato a Livorno non solo per aver frequentato l’Accademia Navale dal 1923 al 1927, uscendone col grado di guardiamarina, ma anche per aver sposato nel 1933 una livornese, Rina Anichini, da cui ebbe due figli Gian Luigi e Graziella Marina.
E’ passato alla storia della Marina Militare con vari appellativi, il “gentiluomo del mare”, il “don Chisciotte del mare”, il “sacerdote del mare”, riconducibili però ad unico concetto, quello della sua umanità: salvare l’equipaggio della nave affondata, sempre e comunque, contro le regole della guerra che imponevano al contrario d’abbandonare i naufraghi al loro destino.
Furono più d’uno simili episodi, portati a termine al comando del sommergibile atlantico “Cappellini”, ciascuno entrato poi nella leggenda come il suo protagonista. Una scelta di coscienza del giovane ufficiale messinese, che odiava tecnicamente i siluri di cui era invece ampiamente dotato il proprio sommergibile, mentre aveva fiducia nei cannoni. Per usarli doveva inevitabilmente salire in superficie e l’attacco era simile ad un abbordaggio come quello dei corsari. Ma, questo, faceva parte del suo spirito cavalleresco.
Si possono ben capire i sentimenti che avrà provato quando venne a conoscenza degli orrendi misfatti perpetrati ai danni dei prigionieri italiani naufraghi del Laconia, in gran parte rimasti chiusi nelle stive ed altri che ebbero, invece, le mani mozzate per impedire loro di salire a bordo delle imbarcazioni di salvataggio. Alla fine i naufraghi italiani morti saranno 1350 su 1800.
Una medaglia d’oro, tre d’argento e due di bronzo sono soltanto l’espressione militare di un valore che va oltre le vicende belliche e che soprattutto gli procura guai seri quando viene chiamato a rapporto dall’ammiraglio tedesco Donitz. «Siete un valoroso, ma soprattutto un pazzo. Ci sono due cose che non riesco assolutamente a capire. Comandate un sommergibile ed invece preferite fare la guerra di superficie. Questo sarebbe ancora tollerabile: potrei affidarvi il comando d’un incrociatore tedesco. Ma sareste capace di mandarlo a piccolo per raccogliere i naufraghi nemici. E’ intollerabile. Avete rischiato l’affondamento del sommergibile per uno stupido sentimentalismo. Nessun ufficiale tedesco avrebbe agito così». Risposta: «In quel momento sentivo il peso di molti secoli di civiltà. Un ufficiale tedesco, forse, non avrebbe sentito quel peso». Donitz, prima appare incerto come colpito da tanta schiettezza, vuole salvare la forma e la sua posizione, poi desiste e gli stringe la mano: «Mi sono meritato questa risposta».
Se Livorno è parte importante nella vita di Todaro, non meno lo è stato “Il Telegrafo”, seppur in altra dimensione. Delle sue gesta s’occupò a fine anni ’60, Angiolo Berti. «La Marina Militare - scrive - ricorderà Todaro per tre elementi: pur affondatore del naviglio avversario, sempre la preoccupazione fu la salvezza degli equipaggi imbarcati su quei battelli. A loro dedicò i propri pensieri con un sentimento di solidarietà oltre la bandiera. A tali vicende umane, dedicò sé stesso con la semplicità di chi voglia vedere nelle onde l’immagine del fratello».
«Fu credente nei valori del bene e nella fede che vollero guidarlo alla salvezza degli uomini. Dimostrò - aggiunge - che si combatte contro lo strumento militare del nemico, non contro l’uomo. Nella storia della guerra, rimane il simbolo dell’umanità che supera la violenza, qualunque essa sia». Semplice è quindi il suo messaggio: «Anche quella sul mare, con l’affondamento dell’unità nemica, è violenza, ma gli equipaggi non sono nemici da colpire». «Lui - conclude Berti - superò la violenza salvando gli equipaggi insieme all’affondamento del battello nemico. Le sue, furono giornate di leggenda e, come tale, Todaro verrà ricordato nella storia dei mari».
Nel giorno dell’anniversario della scomparsa, la figura umana e professionale di Todaro è stata ricordata dalla Fondazione “Angiolo e Maria Teresa Berti” al Campo degli Eroi di Casciana Terme. Nell’“angolo” dedicato alla Marina Militare, ai suoi uomini ed alle loro gesta, è stata letta la lettera che Todaro teneva fra i documenti personali, quando venne colpito a morte. Una lettera scritta da un familiare di un marinaio della nave belga Kàbalo, affondata dal sommergibile “Cappellini” ed il cui equipaggio fu tratto in salvo per decisione dello stesso Todaro, rimorchiato su un gommone e poi sbarcato due giorni più tardi davanti ad un porto nemico.
«Vorrei, se possibile, che queste righe fossero consegnate al Comandante del sommergibile italiano che ha affondato il piroscafo Kàbalo. Signore, felice la nazione che ha degli uomini come voi. I nostri giornali hanno raccontato come avete agito nei confronti dell’equipaggio di una nave che il vostro dovere di soldato vi aveva imposto d’affondare. C’è l’eroismo barbarico e c’è il vostro. Siate benedetto per la vostra bontà, che fa di voi un eroe non solo dell’Italia, ma dell’umanità». Firmato: «Una donna portoghese».
Il giorno prima di morire, così scrisse ad un amico, suo compagno a bordo del “Cappellini”: «Da mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare. Penso che il mio posto sia con loro».
Chi erano questi uomini che lo consideravano immortale? Come si legge nella missiva 13 agosto 1941 di Maricosom, numero di protocollo 520, nell’elenco che effettivamente partecipa alla missione, a firma Salvatore Todaro, si tratta di 60 persone. Di queste, 8 sono toscane: l’aspirante guardiamarina Genio Navale Giorgio Feliciani di Sesto Fiorentino, il capo elettricista Mario Mancin di Borgo a Buggiano, Mario Mastrorosato, Armando Pancani e Tullio Degli Innocenti di Firenze, Ciro Cei di Pisa, l’elbano Mario De Angelis ed il viareggino Adolfo Malfatti. Il massimo della loro aspirazione era quando il loro comandante, per atti di grande coraggio, consentiva di dargli del “tu”: questo valeva per loro più d’una medaglia d’oro.
Buongiorno, volevo informare che la foto che avete postato non è quella del comandante, ma quella di un mafioso italo-americano appartenente alla famiglia di Cleveland, omonimo del militare. Meglio se mettete quella di wikipedia.
RispondiEliminaCordiali saluti