ECCIDIO DELLE FONDERIE RIUNITE MODENA 1950
SEI OMICIDI COMPIUTI IN LUOGHI E MOMENTI DIVERSI AL DI FUORI DI QUALSIASI SCONTRO
Uccisi a sangue freddo
Una strage accuratamente pianificata ed eseguita con fredda determinazione, con l'evidente intento di intimidire le masse operaie e popolari, di colpire le loro organizzazioni politiche e sindacali (Pci, Psi e Cgil in primo luogo) e di intaccare le radici che legavano la sinistra antagonista - come si direbbe oggi - ai milioni di operai e contadini impegnati nelle lotte quotidiane per il lavoro e la democrazia. Questo e non altro è stato l'eccidio di Modena del 9 gennaio 1950: un eccidio che voleva essere a modo suo "esemplare"e che fu il momento culminante di una serie pressoché ininterrotta di episodi sanguinosi, come quelli - tanto per limitarci ai tre mesi precedenti - di Melissa, Torremaggiore e Montescaglioso.
Tiro al piccione
E' la tecnica stessa della strage, configuratasi piuttosto come un succedersi di singoli assassinii, a confermare questa valutazione. Non c'è stato, quella mattina di cinquant'anni fa, nessuno "scontro" tra dimostranti e polizia, nessun "atto di violenza" e nessuna "provocazione" contro le cosiddette forze dell'ordine; c'è stato invece da parte di queste ultime un sistematico tiro al piccione contro operai isolati ed indifesi. E a smentire la tesi grottesca ed infame del ministro degli Interni Scelba secondo cui poliziotti e carabinieri avrebbero sparato per difendersi dall'assalto di "una folla armata fino ai denti" c'è il bilancio stesso di quella tragica giornata: 6 morti e 50 feriti, di cui molti gravi, fra i lavoratori; soltanto tre contusi fra gli agenti, nessuno dei quali ferito da arma da fuoco. Segno evidente che si è sparato da una parte sola, quella stessa da cui è venuta la provocazione.
Tutto è cominciato il 5 dicembre 1949, quando l'industriale Adolfo Orsi, il maggiore industriale del Modenese e uno dei più forti dell'Italia di allora, metteva in atto la serrata delle Fonderie Riunite, teoricamente per ridurre la mano d’opera in eccesso ma in realtà "epurare" le maestranze da tutti gli elementi sindacalmente e politicamente attivi. Lo dimostra il fatto che all’inizio di quel mese di gennaio venivano improvvisamente annunciati, proprio per il 9, la riassunzione di soli 250 dei 565 vecchi operai e l'ingresso in fabbrica di un certo numero di nuovi assunti. Immediata quanto logica la decisione della Camera del lavoro di proclamare per quel giorno uno sciopero e una manifestazione di protesta.
A questo punto scattava la seconda fase della provocazione, con l'afflusso in città di ingenti rinforzi di polizia e carabinieri, dotati di autoblindo, da Cesena, Bologna, Ferrara, Parma, Forlì e Reggio Emilia. Tutta la zona intorno alle Fonderie, lungo l'asse di viale Ciro Menotti, veniva messa di fatto in stato d'assedio, mentre reparti in armi presidiavano tutti gli altri punti nevralgici della città. La CdL chiedeva intanto la concessione della centrale Piazza Roma per tenervi un comizio, e l'otteneva soltanto la mattina stessa, quando era possibile darne l’annuncio solo per mezzo di megafoni e altoparlanti mobili.
Il comizio era previsto per le 10, e quasi alla stessa ora ebbe inizio la sparatoria. In quel momento le strade della città erano percorse da gruppi di scioperanti che si recavano in parte verso il centro e in parte verso le Fonderie Riunite, senza però che si potesse parlare di un unico corteo organizzato. Ed infatti i sei caduti furono uccisi in luoghi e in momenti diversi, con una vera e propria opera di cecchinaggio; esattamente - e significativamente- come accadrà dieci anni più tardi, al momento della protesta contro il governo Tambroni, con la strage dei cinque operai di Reggio Emilia.
La prima vittima
Il primo a cadere tu Arturo Chiapelli, di 43 anni, ucciso da un carabiniere appostato sulla terrazza delle Fonderie mentre attraversava da solo, i binari della ferrovia che corre accanto allo stabilimento e dopo che i manifestanti riunitisi in quella zona erano stati dispersi con lancio di lacrirnogeni e raffiche sparate in aria; caduto tra i binari, ci vollero alcuni minuti perché i compagni potessero recuperame il corpo in quanto il "cecchino" continuava a sparare. Quasi contemporaneamente e a poca distanza cadeva la seconda vittima, Angelo Appiani di 30 anni, che si trovava con altri quattro o cinque lavoratori davanti ai cancelli delle Fonderie e che venne freddato da un carabiniere (o da un milite della Celere, secondo altre testimonianze) uscito incontro a loro con il fucile spianato.
Il terzo assassinio veniva cornmesso davanti a uno sbarrarnento di agenti che aveva bloccato un corteo di circa 200 lavoratori con bandiere e cartelli. Anche qui lancio di lacrimogeni e successiva violenta carica; nel fuggi fuggi generale, l'operaio Roberto Rovatti di 36 anni, già combattente partigiano, che portava un cartello, veniva aggredito, percosso con i calci dei fucili, rovesciato nel fossato che costeggia la strada e finito con un colpo di arma da fiuoco. Seguì una fase di relativa tregua, della quale i sindacalisti approfittarono per far circolare la notizia che il comizio era spostato al pomeriggio; ma dopo le 12 riprendevano le cariche, fra il crepitare continuo delle armi e i lanci dì lacrimogeni; i lavoratori venivano di fatto incolonnati verso il viale Ciro Menotti dove i blocchi dì polizia avevano predisposto dei passaggi obbligati, vere e proprie forche caudine al cui passaggio gli scioperanti venivano percossi e molti di loro arrestati. E qui finirono uccisi a sangue freddo, da uno stesso carabiniere, Ennio Garagnani, di 21 anni, colpito alla nuca mentre svoltava per via Piave, e Renzo Bersani, anch'egli di 21 anni e fratello di un fucilato dai nazisti, raggiunto da un proiettile mentre stava per voltare in via Monte Grappa. Incerte restarono invece le circostanze dell’uccisione del sesto operaio, Arturo Malagoli, di 21 anni anch’egli comunque colpito a sangue freddo.
Queste le circostanze del barbaro eccidio del 9 gennaio 1950. Abbiamo già detto che non fu il primo, molti altri lo avevano preceduto, e non fu nemmeno l'ultimo. Malgrado il possente moto di protesta che riempì le piazze di tutte le città (a Roma sfilammo in centomila, affrontando ancora una volta le cariche della Celere), già nei tre mesi successivi altri lavoratori sarebbero caduti sotto il fuoco della polizia nelle località abruzzesi di Celano e Lentella. Soltanto fra il gennaio 1948 e il giugno 1950, il bilancio della repressione contro la sinistra fu di 62 lavoratori uccisi di cui 48 comunisti, 3.126 feriti di cui 2.367 comunisti, 92.169 arrestati di cui 73.870 comunisti e 8.441 anni di carcere inflitti di cui 7.598 ai comunisti. Cifre agghiaccianti, che parlano da sole.
Giancarlo Lanutti
La Polizia ne parla così:
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