Domenica 27 giugno 2010

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IF n°49
Sanguinose pagine di storia italiana
Sanguinose pagine di storia italiana :I FATTI DI GENOVA 1960

di Rossella Porcheddu

Il 1960 fu un anno cruciale per l’Italia, in cui si decisero i futuri assetti del governo, e gli eventi tragici che si susseguirono, a partire dalle manifestazioni di Genova alla strage di Reggio Emilia, fino ai fatti di Catania e Palermo determinarono una svolta epocale. La situazione politica italiana in quegli anni era profondamente instabile, dal 1955 al 1960 si erano alternati cinque governi e la Democrazia Cristiana, allora a capo del paese con una maggioranza relativa, si trovava di fronte ad una scelta obbligata. Avrebbe potuto aprire una strada verso la sinistra e il Partito Socialista oppure verso la destra e il Movimento Sociale Italiano. L’apertura ai partiti di sinistra, che guardavano favorevolmente a un’intesa con i moderati, però avrebbe necessariamente significato un’alleanza con il Partito Comunista, inviso ai cattolici. Il Governo Tambroni, subentrato nell’aprile del 1960, ottenne la fiducia alla Camera grazie al voto determinante del Movimento Sociale Italiano. I ministri Giulio Pastore, Giorgio Bo e Fiorentino Sullo, insieme ai sottosegretari Antonio Pecoraro, Nullo Biaggi e Lorenzo Spallino, tutti appartenenti alla sinistra democristiana, si dimisero immediatamente per protestare contro il voto determinante del MSI.  “Per la prima volta il Movimento Sociale, dichiaratamente fascista, pur con al suo interno qualche segno di evoluzione, acquistava un ruolo di governo. E questo apriva una serie di reazioni da parte delle forze di sinistra di ispirazione socialista e non, ma anche da parte della Democrazia Cristiana tanto è vero che i tre ministri si dimisero. Il governo Tambroni apparve come una scelta tra le due alternative, non più l’apertura alle forze socialiste ma l’unione con le forze della destra dichiarata”, così commenta Renzo Bonazzi, sindaco di Reggio Emilia dal 1962 al 1976. Il governo Tambroni fu in qualche modo l’ultimo tentativo di fermare l’evoluzione del centro sinistra e in una certa misura un passo indietro rispetto agli obiettivi perseguiti fino a quel momento. Quella svolta tanto auspicata si prospettava dunque molto lontana. Le ripercussioni si sentirono non solo all’interno del governo ma anche, in maniera più generalizzata, in tutto il paese, da nord a sud. “Probabilmente molti, me compreso, al momento della costituzione del governo Tambroni, non capirono il rischio che tale involuzione avrebbe comportato, e però, in forma quasi istintiva e inconsapevole, la reazione fu tanto forte quanto generale in tutto il paese”, dichiara l’avvocato Dino Felisetti.  Ad avere un ruolo di primo piano negli eventi del giugno e del luglio 1960 furono i giovani, coloro i quali fino a quel momento erano ritenuti spoliticizzati, senza coscienza politica, incapaci di far valere i propri diritti. Per la prima volta in quei mesi si assistette non solo ad una ritrovata unità antifascista ma anche ad un impegno politico combattivo da parte di quei giovani che non avevano partecipato alla Resistenza. Lo storico Massimo Storchi a questo proposito fa notare come “Si guardava ai giovani con uno sguardo distante, soprattutto perché iniziavano a sentire l’attrazione per gli Stati Uniti, la moda, i blue jeans, la musica. Li si chiamava Teddy Boys con un chiaro riferimento alle bande americane. In realtà poi i giovani erano quelli che ci lasciavano la pelle, andavano in piazza a morire”.
Quei ragazzi dalle magliette a strisce erano dei nuovi italiani, coscienti dei propri diritti e pronti a combattere per esercitarli. Una rinnovata classe operaia impegnata in una lotta pacifica ma allo stesso tempo massiccia e compatta contro le nuove forze al governo. L’occasione per i giovani di dimostrare il loro rinvigorito impegno politico si presentò nel giugno del 1960, quando il Movimento Sociale annunciò, in quella che fu letta come un’aperta provocazione alle forze di sinistra, non solo che sarebbe stata Genova ad ospitare il congresso annuale del partito, ma anche che a presiederlo sarebbe stato Emanuele Basile, prefetto della città sotto la Repubblica di Salò. Genova tutta fu nelle mani dei lavoratori portuali, alla guida di decine di giovani, supportati dai comandanti partigiani. La polizia non riuscì a disperdere i manifestanti, i quali incendiarono jeep ed eressero barricate, accesero un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il congresso venne annullato, ma il governo da allora in poi attuò la linea dura. Tambroni era un uomo tanto determinato quanto spregiudicato se è vero che negli anni in cui fu Ministro dell’Interno su di lui si aggirò una ‘leggenda nera’. Fautore di una politica di “legge ed ordine”, dopo i fatti di Genova ordinò a tutte le prefetture italiane che fosse vietato qualsiasi raggruppamento formato da più di due persone. Reggio Emilia, città medaglia d’oro della Resistenza, non mancò di dare il proprio contributo con una manifestazione pacifica. Nel sottolineare il contesto sociologico in cui quei fatti ebbero luogo, lo storico Massimo Storchi tiene a ribadire che “Nella storia d’Italia, quando successe un fatto importante, Reggio e l’Emilia furono sempre presenti e questo accade ancora oggi. È una capacità di non tirarsi indietro rispetto a ciò che avviene. C’è una consapevolezza di essere cittadini più qui che altrove”. La Cgil di Reggio Emilia, che aveva indetto lo sciopero generale per la giornata del 7 luglio, non ottenne dalla prefettura il permesso di poter svolgere la manifestazione in piazza. La Sala Verdi però non riuscì a contenere tutti gli operai delle fabbriche reggiane, parte dei quali si riversarono in Piazza della Vittoria nonostante la mancata autorizzazione. Renzo Bonazzi, assessore della giunta Campioli, rispetto a quei fatti dichiara: “Tambroni aveva emanato direttive ai prefetti e questori di tutta Italia di reprimere drasticamente qualsiasi manifestazione che non fosse stata autorizzata. Il fatto che si formassero cortei e agglomerati di persone all’aperto era una contravvenzione all’autorizzazione che era limitata alla Sala Verdi. Se gli scontri ci furono avvennero perché  le direttive del governo rendevano inevitabile che si formassero situazioni per cui le forze di polizia avevano l’ordine di intervenire. Evidentemente quello che sorprese e che il governo e gli stessi organizzatori della manifestazione non si aspettavano, fu la reazione molto più decisa e tenace di quella che qualcuno aveva potuto prevedere”. Benché la manifestazione fosse pacifica, la polizia penetrò nella piazza disperdendo la folla, che si rifugiò nel vicino Isolato San Rocco, e successivamente facendo fuoco. Davanti ad una reazione così violenta e inaspettata fu quasi impossibile cercare di mettere rimedio. Colpiscono a questo proposito le parole dell’avvocato Dino Felisetti, presente in piazza quel torrido pomeriggio di luglio: “Ricordo in particolare un episodio che mi è rimasto impresso e continua a rimanermi impresso in termini quasi indelebili: un personaggio piccolo di statura dell’età di 65 o 70 anni con la fascia del sindaco della città, avanzare verso il comandante di una pattuglia di polizia che stava sparando, invitandolo a capire che stava facendo una cosa incredibile. Quell’uomo si prese sulle spalle la rappresentanza generale di tutta la piazza per mostrare che la manifestazione non aveva intenti di rivolta ma di salvaguardia della democrazia”.
Cesare Campioli, allora sindaco di Reggio Emilia, uomo di modesta statura e di origini contadine, ebbe un ruolo di mediazione tra i manifestanti e le forze dell’ordine, pur non riuscendo a sovvertire in alcun modo l’esito degli eventi. Uomo semplice e affabile non rinnegò mai, neanche in quel contesto drammatico, la lotta per la libertà e per la giustizia contro il fascismo. Anzi con orgoglio sottolineava di aver partecipato a tutte le battaglie dei lavoratori per la difesa dei loro diritti. La battaglia del 7 luglio fu tanto drammatica nel suo esito quando significativa per la città di Reggio Emilia in particolare e per l’Italia in generale. Non fu una manifestazione della sinistra contro il Movimento Sociale; tutte le forze politiche, anche della Democrazia Cristiana, si schierarono dalla parte dei manifestanti. Basti pensare che il professor Corrado Corghi, allora presidente regionale della DC, si schierò dalla parte degli operai, compromettendo la propria carriera politica. Quel governo Tambroni che aveva bloccato lo sviluppo dell’Italia all’alba del boom economico, era inviso non solo ai comunisti, ma a larghi strati dell’opinione pubblica che simpatizzavano per la DC. Dopo i fatti sanguinosi che investirono tutta la penisola, da Genova a Catania, Tambroni fu costretto a dimettersi, aprendo finalmente la strada alla svolta tanto attesa. Quei fatti dolorosi ridefinirono gli assetti politici ed economici dell’Italia, che si apriva ad una nuova fase.
L’avvento delle forze di centrosinistra fu la risposta ad una società che chiedeva un cambiamento, che pretendeva, soprattutto all’indomani di quei fatti, un’esperienza nuova, che guardasse al futuro politico ed economico del paese.

LO SFONDO POLITICO ITALIANO

Dopo la disfatta del secondo governo Segni, caduto il 23 marzo 1960, l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi diede l’incarico di formare il nuovo governo a Fernardo Tambroni, esponente di secondo piano della Democrazia Cristiana. Determinanti furono i voti di ventiquattro rappresentanti del Movimento Sociale Italiano, partito politico costituito dai reduci della Repubblica Sociale Italiana ed esponenti del regime fascista. Due mesi dopo la nomina di Tambroni, il Movimento Sociale Italiano organizzò il proprio congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, chiamando a presiederlo quell’Emanuele Basile che era stato prefetto di Genova durante la Repubblica di Salò. Le proteste immediate coinvolsero per la prima volta tutte le fasce sociali, dai più anziani ai giovani, sia operai che studenti. Dinanzi al protrarsi della rivolta, la prefettura di Genova annullò il congresso. Il governo rispose dando l’ordine alla polizia di attuare, da quel momento in poi, una ‘linea dura’ contro i manifestanti.
I fatti di Reggio Emilia. Il 6 luglio la Cgil di Reggio Emilia indisse uno sciopero generale per il giorno successivo. La Sala  Verdi, designata per la manifestazione non riuscì a contenere i 20.000 manifestanti, tanto che i 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane si riversarono in Piazza della Vittoria, raccogliendosi davanti al Monumento ai Caduti. La polizia aveva proibito gli assembramenti e lo stesso altoparlante della Cgil lo ricordava in continuazione ai manifestanti. Di fronte al venire meno dell’ordine la polizia penetrò nella piazza carica disperdendo la folla che trovò riparo nel vicino Isolato San Rocco. Di fronte alla disperata resistenza dei manifestanti, che lanciavano sulla piazza le seggiole dei bar, pezzi di legno e sassi, le forze dell’ordine impugnarono le armi da fuoco e cominciano a sparare. Alla fine degli scontri rimasero a terra i corpi di cinque operai, dislocati in punti distanti fra loro.
I caduti
Lauro Farioli aveva 22 anni, una moglie e un figlio. Era soprannominato ‘Modugno’ per una somiglianza con il cantante. Uscito di casa con indosso un paio di pantaloncini, una camicetta rossa e le ciabatte fu colpito in pieno petto e cadde riverso sul sagrato della chiesa di San Francesco. Marino Serri, ex partigiano di 41 anni veniva da una famiglia poverissima di Casina. Ebbe la sola colpa di affacciarsi da un angolo per gridare con tutta la rabbia che aveva in corpo ‘Assassini’. Cadde sotto una raffica di mitra. Aveva solo 19 anni Ovidio Franchi, che lavorava come apprendista in una piccola officina del reggiano. Frequentava le scuole serali per conseguire l’attestato di disegnatore meccanico. Colpito in piazza Cavour da un proiettile all’addome morì poco dopo per le ferite riportate.Nei pressi del negozio di Zamboni, nell’Isolato San Rocco, morì Emilio Reverberi. Lavorava alle Officine Reggiane dall’età di 14 anni ed era stato licenziato per la sua iscrizione al Partito Comunista.  Al centro della piazza della Libertà spirò Afro Tondelli, segretario locale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Solo al centro della piazza, venne colpito dall’agente Orlando Celani, che sparò un colpo sicuro in accurata posizione di tiro. Queste le sue ultime parole: “Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia”.
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Il processo

Nel 1964 si svolse a Milano il processo a carico del vicequestore Giulio Cafari Panico, a capo delle forze di polizia all’epoca dei fatti, dell’agente Orlando Celani, che aveva sparato ad Afro Tondelli e di alcuni altri agenti del reparto. , che avrebbe dovuto svolgersi nella città in cui era avvenuto il fatto, per quella che nel linguaggio giudiziario si definisce ‘legittima suspicione’ fu trasferito in altra sede. In sostanza si temeva, per un legittimo sospetto, che i giudici di Reggio Emilia, non sarebbero stati imparziali nel valutare gli eventi. L’esito fu di assoluzione per gli imputati per “non aver commesso il fatto”. Dino Felisetti partecipò in veste di avvocato al processo e a questo proposito dichiara: “Volendo essere sincero fino in fondo devo anche dire che io ebbi molte riserve per il modo con il quale si accettò che la partita giudiziaria venisse conclusa senza ulteriori giudizi in gradi successivi e che in un modo o nell’altro si sia accettato, forse per ragioni politiche superiori un risarcimento dei danni come succede in un qualsiasi incidente stradale”. Sull’esito del processo influì forse la situazione politica del paese, perché, come ha dichiarato Renzo Bonazzi “La riapertura del processo avrebbe fatto riemergere i dissensi che allora divisero la Democrazia Cristiana al suo interno e con i suoi alleati. Una sentenza che decidesse di chi erano le responsabilità avrebbe rischiato di riaprire una dialettica politica che non conveniva riaprire”. Certo è che ancora oggi molte domande non trovano risposta e che l’esito del processo sminuì l’importanza storica e politica di quell’evento.

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