EDITORIALE

FLUSSI MIGRATORI

Tra autovalorizzazione, etnicizzazione del lavoro e razzismo operativo


 


 

PREMESSA


 

La storia dei popoli è sempre stata storia di viaggi, spostamenti, migrazioni.

Quest'aspetto oltre ad essere determinante per cogliere una tendenza naturale degli esseri umani, arriva addirittura a costituire l'essenza di alcuni popoli per i quali non c'è differenza tra definizione della propria identità e carattere migratorio. Dai Mongoli ai Tuareg fino a giungere agli Zingari e all'intreccio delle molteplici sotto-comunità nomadi, sono sempre esistite popolazioni forgiate dalla cultura della migrazione e dell'attraversamento dei territori.

"Indossava un mantello abbastanza ampio e spesso senza maniche, con un enorme cappuccio, esattamente come quelli che sovente adoperavano i viaggiatori, in inverno, in qualche luogo lontano all'estero, in Svizzera o per esempio nell'Italia Settentrionale, non considerando naturalmente di dover percorrere tragitti come quello da Ejdkunen a Pietroburgo. Ma quel che andava bene ed era pienamente soddisfacente in Italia risultava nient'affatto adatto in Russia."

F. Dostoevskij – L'idiota -

La storia di un esodo è d'altronde storia biblica, fondante la cultura dell'Occidente entro la quale reagiscono tutti gli aspetti che hanno contribuito alla nascita di una tradizione ebraico-cristiana. Quest'Occidente, quindi, da sempre attraversato da nomadismi "anomali", da viandanti senza legami, gioca un doppio ruolo, è costretto ad un doppio sguardo, in quanto da una parte interpreta e pensa le migrazioni come fenomeno esotico, lontano, di culture altre rispetto a quelle dominanti nel proprio regno, dall'altra respira affannosamente quando le "orde barbariche" tracciano solchi all'interno dei propri confini.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

La storia del capitalismo è fin dalle origini indissolubilmente connessa ai fenomeni migratori di matrice economica. La prima rivoluzione industriale inscrive nel patrimonio genetico del vecchio continente una serie di inedite caratteristiche. Sviluppo economico di ordine esponenziale, fenomeni demografici e urbanizzazione, mutano a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo lo scenario classico dell'Europa moderna. E' l'Inghilterra a risentire per prima delle radicali trasformazioni indotte da una variazione di scala e modalità del sistema produttivo. Questo paese sperimenta per primo un assetto produttivo basato sulla fabbrica e tutta una serie di sconvolgimenti connessi a forme avanzate di commercializzazione e industrializzazione. Mutano le tipologie produttive con l'utilizzo delle macchine da grande industria, le forme del lavoro, il rapporto tra città e campagne e l'interazione tra centro e periferia.

Nel giro di un secolo l'Europa continentale inizia ad attraversare una fase di grande espansione industriale risposta a pressioni endogene che spingevano al cambiamento e reazione ai nuovi metodi inglesi. Una delle conseguenze più vistose del passaggio da un sistema preindustriale ad uno industriale fu il massiccio aumento degli abitanti nelle città. L'urbanizzazione rappresenta quindi uno degli aspetti prioritari dei fenomeni migratori d'ordine interno. Accanto a questi si sviluppano flussi d'ordine internazionale. Si calcola che tra il 1800 e il 1930 lasciarono l'Europa quaranta milioni di abitanti alla rotta, prevalentemente, delle due Americhe. In conseguenza degli sviluppi produttivi la storia del novecento è storia di massicce e determinanti migrazioni verso i territori che di volta in volta assurgono il ruolo di polo d'attrazione economica.

E' per fattori propriamente economici che questo paese, a cavallo tra gli anni '50 e gli anni '60, è soggetto ad un fenomeno d'enormi flussi migratori dal sud verso il nord industrializzato che sconvolgono l'assetto socio-politico-economico di consistenti aree dell'Italia settentrionale, e soprattutto dei grossi centri produttivi. Questo spostamento forzato ha generato delle profonde mutazioni in seno a molte delle sfere in cui si articola la società. Da cambiamenti delle logiche produttive a variazioni delle forme di organizzazione del lavoro, da una ridefinizione delle componenti "etniche" dei tessuti urbani alla formazione di nuovi caratteri di una "coscienza collettiva" riformulata. Dalla creazione di nuove metodologie dell'agire politico e dell'organizzazione a un riassetto dell'urbanistica metropolitana teso al controllo e al disciplinamento degli stessi flussi.

E' in quest'arco di tempo che prendono forma in maniera consistente quelle micro-dinamiche che da lì a pochi anni sarebbero esplose in un fenomeno su ampia scala in grado di sconvolgere i meccanismi della divisione del lavoro e dell'organizzazione della produzione, soprattutto di fabbrica. Tali processi innescati in quel contesto storico-politico portano alla generazione di un ciclo di lotte in grado di mirare al cuore della produzione capitalistica. Il capitale, a cominciare dalla metà degli anni settanta fino alla prima metà degli anni ottanta riarticola i processi di produzione e, ristrutturandosi, sconvolge le modalità classiche d'identificazione del lavoro, della produzione e del rapporto tra centro e periferia. I mutamenti, di straordinaria portata ed evidenza, hanno generato una moltitudine d'analisi tendenti a dimostrare e ad evidenziare l'avvicendamento, sostanzialmente avvenuto, tra paradigmi produttivi.

Senza addentrarci in questo tipo di riflessioni ci vorremmo soffermare soltanto su un "rinnovamento" avvenuto sul versante della produzione: quello che ha i suoi risvolti più evidenti nell'arretramento della figura dell'operaio tradizionale e, di riflesso, nella "rinascita" di forme produttive sicuramente minoritarie in un sistema pienamente fordista. La perdita di centralità del lavoro operaio si compie gradualmente e passa da una rinnovata composizione tecnica della classe operaia alla sua espulsione massiccia dalla produzione di fabbrica, effetto di un lavoro sempre più esternalizzato e strutturato in forme più decentralizzate e diffuse sul territorio. Di contro alla frammentazione del lavoro operaio si erge una massa enorme di lavoro subalterno, precario, sottopagato, capace di interessare orizzontalmente diversi strati della popolazione lavorativa.

Per grandi linee potremmo identificare nella ristrutturazione capitalistica avvenuta tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta uno spartiacque tra due forme massicce d'emigrazione. La prima caratterizzata da flussi migratori d'ordine interno1.L'emigrazione, cioè, concerne spostamenti nell'ambito di uno stato. La seconda fondata dall'affiancarsi e dal sovrapporsi all'emigrazione interna di un'ulteriore situata su una scala più ampia, di ordine internazionale che interessa e reagisce in un sistema situato ad un livello in cui gli scambi e il rapporto tra capitale e lavoro è globale. La differenza tra queste due tipologie d'emigrazione è fondamentale per la comprensione della situazione attuale. A determinarla ci sono, tra gli altri, due fattori prioritari.

Il primo è che, a seguito della crisi petrolifera del '73 e della successiva recessione le politiche governative sono state orientate alla chiusura delle frontiere all'emigrazione ufficiale. E' qui che s'innesca quel processo, diventato oggi preponderante, dell'immigrazione clandestina.

La prima crisi radicale e diffusa del sistema capitalistico post-bellico porta con se la risposta dei governi in relazione alla quale quelle quote di forza-lavoro immigrata fino ad allora completamente strutturali e assimilabili, nel mutato scenario socio-economico-politico divengono eccedenze d'immigrazione clandestina ed illegale. La crisi del modello fordista ha radicalmente inciso nello scenario dell'emigrazione internazionale rideterminando sia le modalità, ed in alcuni casi i versi dei flussi, sia i confini tra aree produttive. Il caso italiano, per esempio, è paradigmatico rispetto alla fluttuazione e alla ridefinizione delle direzioni degli spostamenti. L'Italia diviene paese meta d'immigrazione oltre ad essere, tradizionalmente, esportatore di manodopera.

Il secondo fattore riguarda soprattutto l'Europa e consiste in un fenomeno di massiccia immissione nel circuito dell'immigrazione internazionale di emigranti dai paesi dell'Est dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dei paesi del cosiddetto socialismo realeDurante i primissimi anni '90 si trovano, quindi, a reagire tre elementi: la formulazione operativa della nozione di immigrazione clandestina; gli effetti ormai macroscopici delle ristrutturazioni capitalistiche; correnti migratorie dal Mediterraneo e dall'Est europeo verso il continente.

Abbiamo fino ad ora considerato, molto brevemente, l'emigrazione come fenomeno dalla duplice natura. In primo luogo come "fatto culturale" cioè come elemento costitutivo della tradizione di alcuni popoli, ed in secondo luogo come fenomeno di ordine economico. Oltre a queste due accezioni ne esiste un altra fondata su un'ulteriore sfera di fattori causali.

Storicamente gli esodi sono stati determinati, in alcune epoche in massima parte, da vere e proprie cause esogene. Così carestie, persecuzioni, guerre, calamità naturali, fenomeni religiosi, hanno spesso costretto intere popolazioni a spostamenti forzati alla volta di territori in grado di garantire maggior sicurezza o migliori condizioni di vita.

Oltre che da tutte queste prospettive, questo tema può essere sviluppato anche a partire dal riferimento fatto sopra a quelle tipologie di flussi dall'Est europeo verso il continente. Questo tipo di movimento tra tutte le articolazioni casuali annovera anche alcuni fattori non riducibili né all'ambito economico, né a quello culturale, né a quello dei movimenti indotti da forze esterne.

In alcuni casi, nascosta nel calderone dell'immigrazione internazionale e nelle ideologiche tipizzazioni dei paesi "ospitanti", si lascia intravedere una risposta ad una domanda di altro genere, domanda che potremmo definire inequivocabilmente politica. Tentare la via della fuga, una fuga non indotta ma scelta è, in questo caso, un atto altamente conflittuale, di dissenso aperto ed esplicito rispetto al mondo rappresentato dal proprio paese. Si evidenzia una forma d'insubordinazione da parte di chi è portatore di una coscienza particolarmente spiccata, di chi in vari modi si trova a rivestire il ruolo di "avanguardia" politica o culturale o artistica e che non rivendica tra i bisogni primari quello di far fronte a situazioni di particolare indigenza. Partire in questi casi è un voto politico, una forma di rifiuto che porta ad imboccare il sentiero dell'autovalorizzazione e della possibilità.

La storia ha fornito diversi esempi di questo genere. Durante i primissimi anni di questo secolo consistenti flussi d'irlandesi verso gli Stati Uniti furono determinati dalla repressione della lotta di liberazione di quel popolo con l'occupazione permanente dell'esercito inglese. O ancora, sorvolando sugli esodi forzati del '900, per citare un caso d'estrema attualità, l'emigrazione delle migliaia di Kurdi è finalizzata innanzitutto all'ottenimento dell'asilo politico e determinata dalla politica repressiva del governo turco.

Questi pochi cenni per ridimensionare due teorie classiche della demografia ufficiale secondo cui l'emigrazione prende il via "naturalmente" una volta superate delle soglie massime sostenibili di miseria o di densità di popolazione. L'emigrazione internazionale, quindi, non è soltanto un serbatoio passivo da cui il capitalismo attinge indiscriminatamente e non recita il ruolo di esercito di riserva al comando dei paesi ricchi e sviluppati. E' anche, in alcuni casi, un fenomeno di straordinaria autovalorizzazione, d'insubordinazione e di rifiuto delle condizioni politiche e ed economiche del paese d'origine.

E' bene, comunque, collocare quest'ultima tipologia dei flussi migratori in posizione marginale nel panorama generale, perché a dettare tempi e modi della maggior parte dei flussi è il fattore propriamente economico. E' il mercato del lavoro a svolgere, secondo una consolidata tradizione, la funzione di principale polo d'attrazione nel sistema degli scambi economici. Lo stesso mercato del lavoro nel sistema capitalistico mostra i segni di alcune radicali variazioni, effetti delle ristrutturazioni e del passaggio di paradigma compiutosi nello scorso decennio. Essendo componente fondamentale del sistema produttivo stesso, è stato necessariamente intaccato da tali dinamiche che hanno finito per alterarne l'articolazione classica. A tali mutazioni hanno contribuito, tra gli altri, due fattori: il primo è quello più direttamente connesso al passaggio di paradigma per cui il mercato del lavoro oggi appare molto più segmentato che in un regime di produzione tendenzialmente fordista. Quelle zone un tempo omogenee, sono oggi frammentate al loro interno; il secondo è più legato alla presenza di forza-lavoro immigrata che rappresenta un elemento di sovversione degli standard della divisione del lavoro su scala nazionale.Questi due fenomeni, la frammentazione del mercato del lavoro e consistenti flussi d'immigrazione generano, o meglio ricreano, un fenomeno che da sempre è inequivocabile strumento di dominio e di controllo: l'etnicizzazione del lavoro. Una dinamica secondo la quale il mercato del lavoro viene gerarchizzato e segmentato e, in più, interi tasselli di questo mosaico vengono "attribuiti" secondo un criterio di selezione fondato sull'appartenenza ad un "gruppo etnico". L'immigrato appena giunto nel paese d'arrivo viene vincolato agli ultimi gradini della divisione sociale del lavoro dall'obbligo di avere un visto di ingresso e un permesso di soggiorno strettamente dipendenti da un contratto di lavoro. L'iter, teoricamente, dovrebbe articolarsi in una fase circoscritta di stanziamento in queste zone della divisione del lavoro e in un momento successivo in cui raggiunta una situazione normalizzata e naturalizzata dovrebbero spalancarsi le porte della libera mobilità nel mercato del lavoro. In sede pratica, invece, i connotati di questo momento iniziale si orientano sempre di più verso una costante irregolarità dovuta principalmente all'insaziabile fame di profitto di padroni e padroncini, e ad una massiccia spinta di immigrati "disponibili" a quel tipo di occupazioni. Così le porte della naturalizzazione sono di fatto blindate e la speculazione gioca sul puro ricatto. "E' come se la divisione etnica di casta, di sesso, fosse diventata necessaria per garantire un certo livello di sfruttamento che non reggeva più in termini unicamente di classe."

E' all'ombra di queste dinamiche che attualmente si sviluppa quella "balcanizzazione del mercato del lavoro" oggi particolarmente evidente. In Italia, paese attraversato ampiamente in questi anni da fenomeni di tal genere, risulta evidente come ci sia una compartimentazione impermeabile tra differenti zone della divisione del lavoro e coma tali aree siano proprie di determinati gruppi etnici.

Così, vagando per una strada di periferia di qualche grande città del Nord ci si può imbattere in laboratori tessili clandestini in cui dietro una serranda semichiusa in una stanzetta di cinque metri per cinque lavorano pressati uno sull'altro donne e ragazzi cinesi. Oppure notare che "l'ultima fascia" della gerarchia tra le prostitute è occupata da ragazze provenienti per lo più da paesi centrafricani e sudafricani. O ancora vedere come l'immigrazione albanese venga per lo più canalizzata nei cantieri edili a svolgere funzioni di manovalanza spesso dequalificati. E' poi ormai un clichè che a badare alle case dei borghesotti nostrani siano donne e uomini filippini. Così come nelle cucine dei ristoranti sono sempre più gli indiani e i pakistani a svolgere, spesso, funzioni di basso livello. Tutti questi fenomeni e una moltitudine di altri ancora evidenziano l'etnicizzazione del lavoro in forme aurorale, ancora distante dall'assumere quei contorni netti quali si manifestano in alcune realtà degli Stati Uniti. E' comunque palese l'articolarsi della realtà secondo una riformulazione del paradigma della divisione del lavoro, in cui a destare l'attenzione è una segmentazione funzionale alla frammentazione della forza lavoro. Insomma, a fronte di una massiccia e tendenziale proletarizzazione, il capitale si adopera a rendere tortuoso il sentiero della ricomposizione, avvalendosi di tutto ciò che all'interno dei rapporti materiali non eminentemente economici spinge alla rottura, alla chiusura e al precipitare delle relazioni tra comunità.

L'etnicizzazione del lavoro si nutre di tutte le logiche di discriminazione razziale e non rappresenta altro che il risvolto operativo del razzismo adoperato come strumento di comando. Metaforicamente è riducibile alle strategie urbanistiche delle metropoli e delle città che iniziano ad essere attraversato da rilevanti fenomeni d'immigrazione nelle quali si ricreano sostanzialmente veri e propri ghetti. In fondo non si tratta d'altro che dell'immissione nella divisione sociale del lavoro di criteri di discriminazione che appartengono o sono appartenuti al patrimonio culturale-ideologico dei grandi imperi coloniali, delle politiche strategicamente razziste, dei razzismi di stato, delle ideologie delle culture, dei miti delle razze, delle divisioni etniche.

E' ancora un processo che vede partecipe alla sua costituzione lo scarto tra l'esistenza di un diritto internazionalmente riconosciuto all'emigrazione (quando questa si mantiene al di qua della soglia stabilita dell'illegalità) e l'assenza di un diritto all'immigrazione, riproducendo in sostanza l'alienazione dell'"homo duplex" che è da una parte homo oeconomicus" in quanto soggetto da sfruttare e pedina da muovere "liberamente" secondo la logica di funzionalità e organicità al ciclo di valorizzazione, e dall'altra uomo non-cittadino assolutamente privo d'ogni forma di diritto di cittadinanza, cui si misconosce la partecipazione alla ricchezza socialmente prodotta e una piena ed effettiva appartenenza.

In una società che continua a connettere la cittadinanza al lavoro, i "diritti" della persona e i "diritti" del lavoratore (e sarebbe tutta da discutere quest'accezione di diritto, o meglio, il concetto stesso di diritto concesso) nel caso dell'emigrante internazionale si dissociano. E' questa asimmetria a determinare la soglia varcata la quale si è considerati clandestini. Ed è indubbio che sia vitale per il capitale mantenere delle fasce di clandestinità nel momento in cui, introdotte nel mercato del lavoro queste s'immettono nei circuiti del lavoro informale notoriamente elastico e "disponibile" ad una domanda costante di lavoro precario. Più la condizione dell'emigrante è lontana dalla naturalizzazione, più è lungo il tempo di stanziamento in quel limbo che è il settore informale dell'economia, in cui a regnare è l'arbitrio assoluto dei mercanti di vite.

Parallelamente alle tragiche farse delle sanatorie e delle politiche governative il potere autentico ha interesse ad una domanda e ad un'offerta strutturale di forza-lavoro informale, per quei settori caratterizzati da una forte discontinuità e irregolarità sia della prestazione lavorativa che della remunerazione. "Il mantenimento nei paesi del nord d'uno statuto inferiorizzato per gli immigrati del sud (lavoratori ma non cittadini) costituisce paradossalmente un fattore di riproduzione indefinita della domanda, d'attrazione. Un tale statuto porta a segmentare in maniera istituzionale e "legale" il mercato del lavoro." In questo processo, di straordinaria complessità, che comprende paese d'origine, paese d'arrivo, elementi causali dell'emigrazione, rotte, modalità, produzione o riproduzione di confini e frontiere, strategie delle forze della pubblica sicurezza, apparati di controllo e detenzione e ancora una moltitudine d'aspetti che riguardano l'intero assetto delle comunità sociali, c'è un ruolo particolarmente determinante interpretato da tutte quelle dinamiche d'inclusione" che partecipano al processo della sussunzione reale.

C'è un gioco che in fondo è una surreale oscillazione tra esclusione effettiva e ideologia dell'inclusione. Oltre all'organizzazione del processo di lavoro, il dominio capitalistico svolge una funzione attiva anche nella riproduzione della forza-lavoro di cui "garantisce" non solo una necessaria sussistenza ma anche la formazione, che in un senso ampio e generico, potremmo definire "culturale". Quest'ultimo aspetto è imperniato e trae nutrimento dal razzismo di stato, -delle istituzioni, di un corpo sociale disciplinato come principio, norma ed esecutore di segregazione, eliminazione, normalizzazione - che si svela nascosto nell'antirazzismo istituzionale". Un razzismo nella filigrana dell'antirazzismo. Oltre alle "visioni del mondo" fondate su un fanatismo identitario, sulla difesa di una qualche "purezza" razziale, sociale, economica, sulla chiusura incondizionata delle frontiere, c'è un razzismo perverso anche nel patrimonio delle culture di stampo universalistico, proprio in quanto funzionali al processo di sussunzione reale, di disciplinamento della forza-lavoro immigrata.

Alla base di tali orientamenti c'è spesso un lucido progetto di costruzione di un mondo "ideologico" comune agli sfruttatori e agli sfruttati, mondo fondato sull'egalitarismo come forma di dominio in nome di un linguaggio universale pronunciato nella lingua dell'universale.

Le ideologie dei diritti umani universali2, il razzismo, il sessismo, il nazionalismo in quanto negazioni delle condizioni di esistenza sociale e finalizzate al dominio delle stesse, ma anche alcune forme antitetiche, alcune "negazioni delle negazioni, mirano utopicamente a restaurare un'unità perduta e si offrono quindi al recupero da parte di diverse forme di dominio".

Pensiamo a queste differenziazioni fittizie e funzionali quali si ritrovano in alcune delle direzioni strategiche dei governi europei, da quelli d'impostazione liberale a quelli socialdemocratici, spesso varianti unicamente nominali assolutamente prive di un riscontro effettivo nella prassi politica. E' questa pratica istituzionale più o meno esplicita che coltiva e rilancia alcuni messaggi, alcune rappresentazioni in grado di mistificarsi, che genera il razzismo come fenomeno sociale totale non attribuibile quindi soltanto al delirio di coscienze individuali e collettive, ma identificabile come una delle forme d'espressione dei rapporti di potere.

La storia recente è storia di un passaggio graduale da un razzismo biologico ad un razzismo senza razze, di natura culturalista fondato storicamente su una nozione di cultura come "struttura simbolica separata ". Così il "razzismo differenzialista" postula l'incompatibilità di culture differenti e non discrimina, quindi, evidentemente e palesemente secondo caratteristiche genetiche. Dal criterio razziale si passa ad una discriminazione praticata in nome dell'appartenenza ad un gruppo etnico, ad una cultura. In più si presenta come progresso, emancipazione, concessione di diritti, l'assimilazione – non effettiva- di un individuo in una società in cui probabilmente già vive da svariati anni. Grande prova di civiltà nell'impresa di dominio universale dal nome europeità.

D'altronde dopo una prima fase di sterminio delle popolazioni autoctone da parte dei primi conquistatori europei, subentrò un progetto molto più "fine" ed "elegante" che si articolava su una graduale conversione di improduttiva carne da macello in forza-lavoro altamente produttiva ed intensamente sfruttabile nel nome dell'europeizzazione e dell'ottimizzazione delle risorse.

Questo come risvolto pratico dell'ideologia che fonda una bianca ed adulta società occidentale, sistema di pensiero e di sfruttamento che nel segno del dominio si dipana attraverso la storia della religione e la storia della filosofia e che esplode in tutta la sua nefasta violenza nel sistema dell'economia-mondo capitalistica. Le gerarchie occupazionali e salariali seguono e si nutrono delle strategie classiche di dominio e controllo e si avvalgono di strumenti "raffinati" quali l'etnicizzazione del lavoro, criterio di divisione del lavoro sostanziato dalla creazione o ri-creazione continua di comunità razziali e sociali, che permettono di espandere o contrarre il numero di coloro che sono "disponibili" ad occupare l'ultimo gradino occupazionale e salariale.

Un mondo - in cui a una tendenziale deindustrializzazione fa da contrappunto un pauperismo diffuso in grado di generare fenomeni quali quelli che attualmente abitano le metropoli statunitensi in cui la precipitazione delle relazioni tra comunità, le politiche repressive, gli abusi poliziesche, la strategia della paura e la moltiplicazione dei crimini razzisti acuiscono una forma di crisi- non fa altro che dare l'ennesima voce al problema millenario del rapporto con l'alterità".


 


 

BIBLIOGRAFIA

Yann Moulier-Boutang, Razza Operaia, Calusca Edizioni, Padova,1992

E. Balibar – I. Wallertein, Razza Nazione Classe, Edizioni Associate, 1996

J. Derrida, Otobiographies, Il Poligrafo,1993

Aut Aut n. 275, Settembre-Ottobre 1996

M. Foucault, Difendere la società, Ponte delle grazie, Firenze, 1990

1 E' chiaro che i flussi che interessano l'Italia negli anni '50 e '60 non possono essere completamente qualificati come interni. Nello stesso periodo si davano consistenti flussi verso la Francia e l'Europa centrale oltre a quelli d'ordine extracontinentali. Così paesi come la Francia e l'Inghilterra sono scenario di un'immigrazione storicamente articolata su un piano internazionale, retaggio delle politiche colonialiste.

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