Primo Levi: il dovere della memoria

 
 

di Tina Borgogni Incoccia

 
 

Fino dal tempo di detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz, Primo Levi sentì l’esigenza di raccontare la sua esperienza infernale e, subito dopo il ritorno, provò l’impulso immiediato e violento di farne “gli altri” partecipi, forse per liberarsi di un peso insopportabile da sostenere.

 
 

Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno.

 
 

Così leggiamo nella poesia che costituisce l’avantesto di Se
questo è un uomo.

 
 

Scrisse il libro di getto, con l’incubo di non essere ascoltato e creduto. In realtà, nella frenesia vitale di riappropriazione dell’esistenza, caratteristica di tutti i dopoguerra, non c’era troppa voglia di voltarsi indietro e riaffondare nell’orrore del passato. Il libro, rifiutato da Einaudi, trovò finalmente un editore che ne stampò soltanto duemilacinquecento copie, di cui appena millecinquecento vendute, soprattutto a Torino, città dell’autore. Italo Calvino ne fece una buona recensione sull’“Unità”, ma Levi, convinto ormai del fallimento della sua aspirazione alla scrittura, si impegnò a svolgere con scrupolo soltanto la sua professione di chimico.

 
 

Dieci anni dopo, furono i giovani a risvegliare in lui la vocazione sopita.

Invitato nel 1956 a partecipare ad una mostra sulla deportazione, egli si vide circondato dai ragazzi che volevano sapere, volevano sentirlo raccontare. La sua parola, concisa, senza sbavature, con l’evidenza efficace della verità dei fatti raccontati, trovò finalmente gli ascoltatori attenti che egli avrebbe voluto incontrare nei primi anni del suo ritorno a casa.

L’editore Einaudi, nuovamente sollecitato, si decise finalmente a pubblicare il libro, nella collana dei Saggi (1958) e da allora esso fu ristampato e tradotto in tante lingue del mondo. A questo libro ne seguirono altri: La tregua, Vizio di forma, La chiave a stella, Se non ora, quando?, I sommersi e i salvati, che confermarono in Primo Levi la sua vocazione di scrittore e gli fecero ottenere premi e riconoscimenti in Italia e all’estero.

Egli era tornato dai campi di sterminio nell’ottobre del 1945, dopo un viaggio lungo e avventuroso attraverso la Russia, viaggio che descrisse nel suo secondo libro La tregua, pubblicato nel 1963 e premiato a Venezia col Campiello. Il racconto, scritto con intenti letterari, cioè con una più accurata elaborazione formale, con una maggiore variatà di argomenti, con note anche ironiche e scherzose che potevano rendere più piacevole la lettura, ha avuto nel 1997 una trasposizione filmica, realizzata dal regista Francesco Rosi nel decennale della morte dell’autore.


 

Nessun libro di Levi raggiunse comunque l’efficacia del primo, scritto con l’impeto febbrile dovuto all’urgenza della sua prima disperata testimonianza. Ad Auschwitz, durante la deportazione, le S.S. avevano ironicamente sentenziato: Se anche sopravviverete, non vi crederà nessuno. Si sbagliavano profondamente.

Levi attribuiva la sua sopravvivenza a vari fattori: egli conosceva abbastanza il tedesco e questo gli permetteva di capire gli ordini con immediatezza. Data la sua laurea in Chimica lo avevano utilizzato in un laboratonio dove soffriva meno il freddo e i disagi materiali. Si era inoltre ammalato provvidenzialmente di scarlattina quando, nel 1945, avvicinandosi i Russi, i prigionieri furono fatti spostare a Buchenwald e a Mathausen dove morirono quasi tutti, mentre i malati furono abbandonati al loro destino.

Pochi furono i superstiti, perché inumane erano le condizioni di vita del campo. Nella lotta per sopravvivere ognuno era ferocemente e disperatamente solo, tutto teso con selvaggia pazienza e con qualsiasi mezzo, a ritagliarsi un angolo minuscolo di privilegio, un grammo in più di pane, un lavoro meno sfibrante. Gli altri, i sopraffatti dalle fatiche, dall’inedia, dal freddo, erano destinati a soccombere, ad essere eliminati, ormai distrutti e già morti prima di andare nelle camere a gas, perché troppo stanchi.

 
 

Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto _ scrive Levi _ e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occbi non si possa leggere traccia del pensiero.

 
 

E, sempre a proposito di Auschwitz, Levi afferma:

 
 

Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuta. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.

 
 

In mezzo a tanta desolazione, avvertiamo però ad un tratto nelle sue pagine la sferzata di energia che può provenire dalla forza morale emanata dalla grande poesia.

Levi sta lavorando con altri all’interno di una grande cisterna interrata con poca luce e la polvere di ruggine che gli brucia le palpebre. Arriva Jean, il prigioniero alsaziano che gode nel Kommando di una posizione particolare, perché è il più giovane (lo chiamano il Pikolo) e può scegliere chi lo accompagnerà a ritirare, con il carretto, la marmitta di cinquanta chili con il rancio giornaliero. Viene scelto Levi. Il ragazzo ha simpatia per lui, conosce bene il francese e vorrebbe imparare l’italiano.

Il tragitto è di circa
un chilometro, ma Jean sceglie la via più lunga. E’ una chiara e tiepida mattinata di giugno e all’orizzonte si delineano i Carpazi bianchi di neve. Levi sceglie per la sua lezione il canto di Ulisse (Inferno, XXVI). Deve parlare di Dante, di Beatrice, di Virgilio. Il Pikolo è attentissimo e Levi comincia a declamare: Lo maggior corno della fiamma antica… Gli anni del Liceo sono purtroppo lontani e qualche verso è inesorabilmente dimenticato. L’episodio è lungo e il tempo passa velocemente. Ci sarebbero ancora tante cose da dire, ma a Levi preme arrivare alla terzina che sta fissa e luminosa nella sua memoria.

 
 

Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi, ho bisogno che tu capisca:

 
 

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e canoscenza (1).

(1) voce arcaica, per conoscenza

 
 

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

 
 

Forse il messaggio è arrivato perché riguarda tutti gli uomini in travaglio e Jean è intelligente. La conclusione avviene in fretta perché è tardi e sono arrivati alla cucina; sono ormai nella fila, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos.

 
 

Infin che il mar fu sopra a noi ricbiuso.

 
 

L’ultimo verso è pronunciato prima dell’annuncio ufficiale che la zuppa del giorno è di cavolo e rape: kraut und rüben.

Tina Borgogni Incoccia

 
 

Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi tascabili, 1999.


 

Primo Levi: la materia e la letteratura

 
 

27 gennaio 2002. Giornata della memoria per le vittime dell’odio razziale

La Repubblica Letteraria Italiana. Letteratura e Lingua Italiana online www.repubblicaletteraria.it

 
 


 
 


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