Giorno della memoria 2011
Perchè anche l'oblio è colpa
Settimia Spizzichino
Tratto da "Gli anni rubati" Le memorie di Settimia Spizzichino, II edizione, Comune di Cava de' Tirreni
Poi ci portarono alle docce. La parola "doccia" non ci faceva ancora paura. Mentre rabbrividivo sotto l'acqua gelata sentii un tonfo. Una donna giaceva a terra. Era una giovane tedesca arrivata chissà come con noi. Si era avvelenata. Era la prima morta che vedevo; la prima di moltissime altre.
Passammo alla tosatura. Dico "tosatura" perché ci tosarono proprio, come le bestie. Sedevo su uno sgabello basso e la tosatrice mi passò tra i capelli - li portavo lunghissimi - al centro della testa. Sentii una lunga ciocca scivolarmi sulla schiena nuda. Ogni volta che ci ripenso risento quel brivido.
Ci dettero dei vestiti, degli stracci per coprirci. Per noi non c'erano neppure quei vestiti a strisce da carcerato che tutti conoscono. In compenso non avemmo neanche la stella gialla.
Ci misero di fila tutte e quarantotto, in fila per cinque, e ci avviarono verso l'interno del campo.
Si vedevano delle baracche e anche delle prigioniere. A parte i vestiti avevano un'aria abbastanza normale. Una di loro porse la mano a Giuditta. Lei la prese e si ritrovò sul palmo della mano una piccola radice. La gettò via; non aveva capito che la donna le aveva regalato un giorno di vita.
Era ormai sera. Ci fecero entrare in una baracca.
Eravamo in dieci e c'era un solo tavolaccio di un metro e mezzo e una sola coperta. Non sapevamo come sistemarci e cominciammo a litigare; stanche com'eravamo, non si riusciva a dormire. Alla fine crollammo.
Mi ero appena addormentata - o così mi sembrava - quando arrivò la sveglia.
A colpi di nerbo, un affare di gomma durissima, ci buttarono giù dal tavolaccio, fuori dalla baracca, nell'aria gelida del primo mattino. Era quasi buio; ci fu un appello. Ci tennero in piedi per ore, mentre i soldati passavano e ammucchiavano davanti alle baracche i corpi di quelle che erano morte durante la notte.
Si avvicinarono delle prigioniere. Erano ben diverse da quelle che avevamo visto all'arrivo; queste erano scheletri coperti di stracci, il numero tatuato sul braccio. "Ma che posto è questo?" - chiedemmo inorridite.
"Questo è Auschwitz-Birkenau, in Polonia"
(.)
I giorni diventavano settimane e mesi mentre l'autunno, freddo più del nostro inverno, diventava inverno, l'inverno polacco che non vede mai il sole, fatto di neve, gelo, tormente. C'erano sempre più cadaveri congelati al mattino, fuori delle baracche. Era il freddo a segnare per noi il passaggio delle stagioni: sempre più freddo ed era arrivato l'inverno; poi il freddo diminuiva a poco a poco ed ecco arrivata la primavera e poi l'estate. Non c'erano altri segni di primavera o estate ad Auschwitz, non erba né fiori. Del resto, se fosse spuntato un filo d'erba qualcuno se lo sarebbe mangiato subito.
I giorni erano legati solo agli avvenimenti, non c'erano calendari o giornali a ricordarci le date, non potevamo quindi dire "il 10 dicembre"; dicevamo invece: "il giorno che mi hanno picchiata" o "il giorno in cui è morta Anna".
I cadaveri venivano portati via ogni mattina, ma i treni piombati portavano continuamente nuovi rifornimenti di prigioniere; giravano allora per il Campo facce nuove che rimanevano nuove per poco, perché dopo qualche tempo eravamo tutte uguali: teste rapate, occhi allucinati, corpi rattrappiti.
All'ospedale i giorni passavano lentamente.
Un mattino il medico, che era un prigioniero polacco, fu accompagnato da un soldato tedesco. Si rivolsero alla mia compagna di letto, tedesca anche lei. Avevo imparato qualche parola in quella lingua, sufficiente a capire quello che la tedesca diceva al soldato: "Prendete l'italiana". Purtroppo il mio tedesco non bastava a far comprendere le mie proteste o più probabilmente a quelli non importava niente. "Prendete l'italiana". Che volevano farmi? L'unica cosa di cui ero certa era che non si trattava di niente di buono.
Mi fecero scendere dal letto, mi avvolsero in una coperta - come al solito ero nuda - e mi portarono fuori al freddo. Avevo una terribile paura; non sapevo cosa volessero da me, ma ad Auschwitz le novità di solito erano brutte.
Arrivò una specie di ambulanza. Pensai subito alla camera a gas, ma poi mi dissi: "Ma la camera a gas per una persona sola, e l'ambulanza.". Ragionavo ma non tanto bene, avevo troppa paura. L'ambulanza mi portò da Birkenau ad Auschwitz, il Campo principale. Auschwitz era molto diversa da Birkenau: le costruzioni erano più fitte e tutte in muratura, la gente sembrava in condizioni anche peggiori delle nostre, persone ingrigite, con occhi senza speranza, con la divisa a strisce che si afflosciava sui corpi scheletrici, con l'immancabile numero tatuato sul braccio. Molti là portavano la stella gialla. Il filo elettrificato circondava dappertutto uomini e costruzioni.
Arrivammo ad un edificio più grande degli altri. Non era la camera a gas.
Entrammo in una stanza a due letti. Letti veri, non tavolacci, con lenzuola e coperte. E c'era un vero bagno in cui mi accompagnarono, un bagno come non ne vedevo da tanto tempo. Mi fecero lavare con del sapone - quasi non ricordavo più come si facesse - poi mi dettero una camicia da notte. Anche nella stanza c'era un lavandino. Tutto era pulito, in ordine. Credevo di sognare, ero sbalordita e molto spaventata. Avevo sete e andai a bere al lavandino. Arrivò di corsa un'infermiera: "Tu non bere, acqua inquinata, c'è tifo!".
"Ma che m'importa, sono mesi che bevo quest'acqua, me lo sarei già preso!"
"Tu aspetta". Uscì sempre di corsa e rientrò portandomi un bicchiere di latte.
"Ma che sta succedendo?" - mi chiesi.
Lo seppi anche troppo presto. Il mattino seguente arrivò il dottore e fu tremendo. Mi portarono in sala operatoria, mi cosparsero con una pomata, non so ancora cosa fosse, e due ore dopo ero tutta una piaga. Il dolore era insopportabile, piangevo e mi lamentavo. "Ti porto la marmellata". Così tentava di consolarmi il medico.
E me la portò davvero, ma non riuscii a mangiarla, stavo troppo male.
Vennero a trovarmi delle ragazze greche che erano ricoverate al piano di sopra. In quella specie di lingua internazionale che si parlava ad Auschwitz - un po' tedesco, un po' tutte le altre lingue e molto a gesti - mi spiegarono: "Siamo al Blocco Esperimenti. Provano su di noi delle medicine; ma prima devono farci ammalare".
Al Blocco rimasi parecchio tempo. Gli esperimenti erano sgradevoli e dolorosi (mi iniettarono la scabbia, il tifo, e una dozzina di altre malattie di cui non conosco il nome) e spesso le cure erano anche peggio della malattia. Per un mese andai avanti e indietro dalla sala operatoria e alla fine ero ridotta in uno stato pietoso, nonostante fossi al caldo, avessi da mangiare - non molto, ma certo più che al Campo - e fossi libera dai maledetti appelli.
Cristina, l'infermiera, era polacca ed era amica del dottore che mi aveva scelta per il blocco. Era una brava persona; il dottore veniva a trovarla tutti i giorni e le portava del cibo che lei divideva con noi. Quando si avvicinava al mio letto, il medico voltava la testa verso l'infermiera e la scuoteva, come a dire: "Questa non ce la fa". "Ce la faccio, vedrai." - pensavo io. Ma non riuscivo quasi più a scendere dal letto.
Mi passarono in una stanza più grande con una decina di ragazze. Un giorno Cristina fece nella sua camera una piccola festa per il suo compleanno e fummo tutte invitate. Ci andarono tutte tranne me, io stavo troppo male. Tuttavia, rimasta sola, decisi di fare una sorpresa alle compagne, di farmi trovare in piedi.
Pian piano mi alzai dal letto e sorreggendomi con la sedia mi trascinai fino al lavandino. Mi aggrappai al bordo con tutt'e due le mani, perché la testa mi girava.
Alzando gli occhi vidi una sconosciuta, uno scheletro sparuto coperto di piaghe. Pensai: "Dio, com'è ridotta questa!" E portai le mani al viso. La sconosciuta fece lo stesso gesto. Allora capii con orrore che stavo guardando la mia immagine allo specchio. Non mi ero più specchiata da quando avevo lasciato la mia casa.
Dio quanto piansi! Eppure ce la feci. Quando smisero di iniettarmi microbi, riuscii a rimettermi e a camminare.
E anche ad avere fame. Ero debolissima e quel poco di cibo che ci davano non mi era sufficiente. Una ragazza greca, una certa Elena, che era con me al Blocco, mi disse: "Va' sul tetto, ci sono degli operai belgi, quando vedono come sei ridotta ti danno da mangiare".
Salii faticosamente le scale e mi fermai sulla porta che dava sul tetto.
Gli operai mi videro: "Abbiamo finito tutto, torna domani" - dissero(.)
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