III - La dittatura ed il fermento antifascista
Nel 1926 il Fascismo portò a compimento la propria trasformazione e alle azioni degli squadristi si aggiunse, a tutti gli effetti, la dura repressione dello Stato. Nel corso di quell’anno Mussolini fece approvare delle misure speciali che rafforzarono i poteri del Capo del Governo al quale non era più richiesto di rispondere del proprio operato davanti al Parlamento, che fu ridotto a semplice luogo di rappresentanza. I giornali furono chiusi e, allo stesso tempo, tutte le associazioni furono sottoposte al controllo della polizia e, di fatto, furono aboliti anche i sindacati, essendo riconosciuti quali interlocutori solo i sindacati fascisti. Inoltre furono abolite le amministrazioni comunali e provinciali e sostituite con autorità governative, i Podestà. Infine i partiti d’opposizione furono sciolti e fu dato mandato al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i cui giudici erano membri della milizia o militari, di disporre per gli antifascisti il carcere, o più spesso, il confino. Le cosiddette leggi "fascistissime" costituirono, quindi, il fondamento sul quale si costruì il regime, che era caratterizzato dalla sostanziale coincidenza tra le strutture dello Stato e del Partito fascista, che rimaneva in questo modo l’unica forza politica legittimata ad esistere. Nel 1926 quindi l'Italia cessò di essere uno Stato liberale e divenne uno Stato totalitario.
Il Partito comunista fu duramente colpito dalla repressione e i suoi maggiori dirigenti finirono in carcere. Durante il “ventennio” il Pci fu il partito antifascista che pagò il prezzo maggiore alla repressione[1]. Il quartier generale del Pci fu spostato a Parigi, mentre in Italia si cercò di mantenere un’organizzazione clandestina. Con l’arresto di Gramsci, Togliatti, che era sfuggito all’arresto solo perché si trovava all’estero, divenne Segretario generale, mentre, almeno in un primo momento, l’azione clandestina in Italia fu affidata a Camilla Ravera. Anche se il Pci era l’unico partito antifascista che aveva organizzato una rete di questo tipo, a causa della repressione della Polizia fascista che utilizzava con efficacia il metodo degli “infiltrati”, ben presto l’iniziativa politica interna si indebolì, come testimonia il numero degli iscritti passati dai 10.000 del 1927 ai circa 7.000 del 1928[2] . Il Pci che era nato ritenendo che la rivoluzione fosse imminente fu colto di sorpresa dal consolidamento del Fascismo, ma nonostante tutto continuò a ritenere che quella fase politica sarebbe stata solo una breve parentesi autoritaria e che ben presto sarebbero ritornate le condizioni per la presa del potere.
I rapporti con l’Internazionale comunista, che erano stati fortemente rafforzati da Togliatti, si deteriorarono bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Tasca, che aveva sostituito Togliatti a Mosca, in favore di Bucharin, che si contrapponeva in quel periodo a Stalin. Dopo che tutta la linea del Pci, da Lione in poi, fu messa in discussione, Togliatti espulse Tasca e allineò di nuovo il Partito sulle posizioni dell’Internazionale, che, a causa di Stalin, erano ritornate ad essere piuttosto settarie. Infatti il Pci fu costretto ad associare ai socialisti italiani e al giovane movimento di Giustizia e Libertà, la teoria del “socialfascismo”, che poneva le sue basi sull’equiparazione tra Fascismo e Socialdemocrazia, intesi, entrambi, come metodi utilizzati dalla borghesia per conservare il potere. Furono escluse, inoltre, le ipotesi, avanzate a Lione da Gramsci, di una fase intermedia che ci sarebbe dovuta essere dopo la caduta del Fascismo.
Queste posizioni provocarono la più grave crisi che il Partito aveva conosciuto nei suoi primi dieci anni di vita[3]: Gramsci e Terracini, dal carcere, fecero sentire la loro voce di dissenso e tre dirigenti nazionali, Leonetti, Ravazzoli e Tresso, furono espulsi dal Partito. Nonostante il settarismo, questo cambio di indirizzo politico generò una ripresa dell’attività in Italia del Pci, che fu spinta in particolare da Longo, e un forte ringiovanimento della base dei militanti. Il passaggio generazionale da chi aveva costituito il Partito a chi ne era entrato in una situazione di clandestinità pose le basi di un nuovo radicamento del Pci nella società, che sarà visibile soprattutto negli anni successivi al Fascismo. A quel periodo e quelle condizioni vanno fatte risalire le basi per la nascita delle roccaforti in Emilia e Toscana, vecchi feudi socialisti, e la crescita nelle campagne. Il Pci si era riuscito a caratterizzare come l’unica forza antifascista realmente attiva in Italia e questo aveva attratto molti giovani che provenivano anche da altre culture, di cui molti erano di famiglie socialiste o popolari, che andavano spesso a sostituire i quadri che finivano in carcere. Nelle campagne, infine, era molto più facile, rispetto che nelle città, organizzare una rete clandestina.
Quando il Fascismo pose mano alle leve del consenso, militarizzando, organizzando e canalizzando le masse, il Pci, pur nelle accresciute difficoltà che impedivano un’azione che potesse essere in qualche modo “di massa”, fu attento e flessibile nel capire l’importanza che di suddetti strumenti. Le strutture fasciste, sia perché erano gli unici luoghi in cui era possibile parlare di politica, sia per rifuggire dalle accuse di “carbonarismo”[4] che spesso l’Internazionale rivolgeva al Pci, divennero un fondamentale bacino di utenza, soprattutto negli anni tra il 1931-32 per propagandare le idee comuniste e soprattutto per mettere in evidenza le contraddizioni del Regime.
Con la crescita del pericolo nazista l’Internazionale comunista cambiò strategia e tra il 1934 e il 1935 lanciò la linea di riunire in un “fronte popolare” tutte le forze che si opponevano all’avanzata dei Fascismi. Se la Francia fu il “paese pilota” in cui si realizzò l’unità delle sinistre, nei partiti antifascisti italiani la situazione fu leggermente diversa. Il Pci, che aveva faticato molto per accettare la “svolta” del 1929, ebbe una sofferenza ancora maggiore per uscire dal settarismo a cui quella svolta sembrava averlo destinato, in quanto, nell’Italia fascista, i militanti si erano trovati da soli a fronteggiare la dittatura. Ma un po’ per volta il lavoro di Togliatti e di Grieco, che fu segretario dal 1934 al 1938[5], diede i suoi frutti, e, nell’agosto del 1934, fu sottoscritto il “patto d’unità d’azione” tra socialisti e comunisti, che, nonostante i distinguo, segnò la riapertura del dialogo tra i due partiti operai.
La speranza di un eventuale insuccesso della campagna in Etiopia, che avrebbe potuto destabilizzare il Regime, andò ben presto delusa con la vittoria italiana e al Pci non restò altro che riprendere la vecchia strategia di operare nelle organizzazioni di massa del Fascismo, lanciando una campagna di “fraternizzazione verso i fratelli in camicia nera”[6]. La campagna che fu lanciata attraverso l’appello pubblicato dallo “Stato operaio” dal titolo “La salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!”[7] non fu accolta molto bene delle altre forze antifasciste e dei militanti italiani del Partito.
Con l’inizio della guerra civile in Spagna, inoltre, riprese con ancora maggiore forza nei militanti della sinistra il sentimento antifascista. A questo punto la Direzione del Pci a Parigi assecondò le richieste che provenivano dal Partito e mise da parte la linea di “fraternizzazione con le masse fasciste” per organizzare la solidarietà ai compagni spagnoli con le “Brigate internazionali” nelle quali si arruolarono 3000 comunisti italiani che avevano tra i loro comandanti Longo e Di Vittorio. L’esperienza spagnola fu utilissima, e non solo perché preparò quadri e militanti del Partito a quella che sarebbe stata la Resistenza in Italia, ma anche perché l’obiettivo di una “democrazia di tipo nuovo”, che si basava sulla cacciata del Fascismo e sull’egemonia dei partiti operai e che si era pensata per la situazione spagnola, costituì la base per un accordo ben più profondo del precedente tra Psi e Pci, che fu sancito da un nuovo “patto d’unità d’azione” nel luglio del 1937.
Si cominciò in quei mesi a saldare il fronte antifascista che risiedeva all’estero: già da qualche mese era stata fondata “l’Unione popolare” che vedeva la presenza dei comunisti, di Giustizia e libertà e dei repubblicani (in seguito aderirono anche i socialisti), ma il Pci, che era l’unico partito organizzato anche in Italia, era attento non solo all’unità antifascista dei partiti emigrati, ma anche, e soprattutto, alla capacità di incidere realmente nel paese[8]. Questa posizione, chiaramente pragmatica, finiva per mettere in secondo piano gli altrettanto importanti aspetti programmatici, come ad esempio il riempire di contenuti il concetto di “democrazia di nuovo tipo”, ai quali sembrarono prestare più attenzione le altre forze antifasciste.
L’azione politica del Pci andò in crisi a causa del rapporto con l’Unione Sovietica, in primo luogo a causa dell’autoritarismo di Stalin, che costrinse Togliatti a prendere duramente posizione contro i crimini del Trotskismo e il Partito a subire l’accusa di “scarsa vigilanza” che portò molti problemi interni culminati con lo scioglimento del Comitato centrale. Ma fu soprattutto il Patto Ribbentrop-Molotov a creare le difficoltà più grosse[9] in quanto fu impossibile conciliare l’unità antifascista con l’approvazione del patto fra sovietici e nazisti e il Pci fu costretto ad appiattirsi sulle posizioni dell’Internazionale che teorizzava per i comunisti l’equidistanza tra i diversi imperialismi. La situazione si aggravò ulteriormente, quando con l’invasione tedesca il Pci si ritrovò in clandestinità anche a Parigi. Togliatti fu arrestato, ma non essendo stato riconosciuto, se la cavò con pochi mesi di carcere e dopo aver riorganizzato un embrione di centro estero del Partito, andò a Mosca dove l’Internazionale, avendo sciolto definitivamente l’Ufficio politico e il Comitato centrale, gli affidò la direzione solitaria del Pci.
La situazione all’interno del Partito, che si era deteriorata con le rotture di Terracini e Ravera, si tranquillizzò grazie alla Dichiarazione di Guerra di Mussolini a Francia ed Inghilterra del 1940, che fece si inoltre che si ricreassero le condizioni per una nuova unità antifascista, che fu suggellata nel 1941 a Tolosa da un accordo tra Pci, Psi e Gl.
[1] Nel “ventennio” fascista i comunisti condannati dal Tribunale speciale furono 4000 per complessivi 230 secoli di galera. Cfr. Togliatti “il Partito”, Edito dalla sezione centrale di stampa e propaganda del Pci.
[2] Cfr. Agosti op. cit.
[3] Cfr. Pistillo op. cit.
[4] Cfr. Agosti op. cit.
[5] Disse Bruno Grieco, figlio di Ruggero, nella scheda di presentazione del libro:
“La storia del Partito Comunista è incompleta: molto del periodo in cui Ruggero Grieco ne è stato segretario, ossia dalla seconda metà del 1934 alla primavera del 1938, viene ignorata o liquidata in poche pagine. Togliatti ha occultato gran parte delle carte di quel periodo, timoroso della popolarità che Grieco aveva acquistato negli ambienti dell’antifascismo italiano, tra i quali era stimato per essersi fatto promotore del patto di Unità d’azione Pci-Psi, dei ripetuti contatti con Giustizia e Libertà, degli appelli rivolti dal Comitato Centrale ai cattolici. È proprio in quegli anni, infatti, che il Comitato Centrale del Pci rompe con la teoria del socialfascismo. Il Comitato Centrale, sotto la guida di Grieco, tese ad applicare tutte le indicazioni che pervenivano direttamente o indirettamente da Gramsci, a costruire un partito che tesseva le fila dell’antifascismo, capace di preparare il terreno all’insurrezione e alla Resistenza in Italia. A rivelare per primo alcuni di questi aspetti oscuri è stato nel 1966 Giorgio Amendola che fece sapere pubblicamente che Grieco era stato per quattro anni segretario del partito. Grieco stesso, al figlio Bruno, non l'aveva mai comunicato. I documenti d’archivio relativi a quel periodo sono tuttora "riservati". Ma molto, moltissimo è stato possibile portare comunque alla luce. Le carte del Comintern, contenute nel libro, sono rivelatrici e vengono pubblicate per la prima volta.” Cfr. Grieco "Un partito non stalinista. Pci 1936: «Appello ai fratelli in camicia nera»", Marsilio.
[6] Cfr. Agosti op. cit. e Pistillo op. cit.
[7] Cfr. Agosti op. cit.
[8] Cfr. “Problemi e discussioni” , editoriale di Stato Operaio del 15 maggio 1939, tratto da “I comunisti e l’unità della classe operaia” a cura della sezione centrale Scuole di Partito del Pci.
[9] Cfr. Pistillo op. cit.
Pubblicato da Salvatore Speranza
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