LE TESTIMONIANZE, DALLA VIVA VOCE DI.....
Rino GRAVATI, reduce da Cefalonia
Rino Gravati, classe 1921, non aveva ancora vent'anni quando nel gennaio del 1941 si trovò in una caserma di Silandro (Bz), assegnato al 17° Fanteria della Divisione Acqui. Nel settembre dello stesso anno fu mandato in Grecia, a Cefalonia, dove il suo reggimento era arrivato per presidiare l'isola insieme ai tedeschi. Nell'isola la vita militare non era insopportabile, con la popolazione locale c'era cordialità, i greci volevano bene a noi soldati italiani. Ma con l'8 settembre a Cefalonia comincia la tragedia. " Da alleati siamo diventati di colpo nemici dei tedeschi. Il generale Gandin rifiuta di cedere le armi e il 15 di settembre comincia la vera guerra. Furono sette giorni terribili: la mia compagnia, composta di circa 200 uomini fu annientata. Ho visto cadere falciato da una raffica di mitraglia il capitano Giorgio Balbi di Parma, che si trovava proprio dietro di me; della mia squadra su sette uomini siamo sopravvissuti in due. Non riuscivo a pensare a niente, tanto prima o poi tutto sarebbe finito! Fortuna volle che fui tra i pochi a salvarmi da quell'inferno". Fu fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento in Serbia e condannato ai lavori forzati lungo una via ferroviaria. Fu poi trasferito vicino a Vienna, dove fece il barbiere del campo, poi scappò e, dopo alcune peripezie, fu catturato ; nel 1945 fuggì di nuovo e prendendo la strada per Innsbruck, salì su un camion per l'Italia e poi a Fidenza. " Certe esperienze cambiano dentro e, in mezzo a tanto odio, ho imparato a non odiare".
Severino ANNONI, reduce da Cefalonia
L'artigliere del 33°Rgt. Artiglieria Severino Annoni, classe 1921, si trovava a Cefalonia durante i fatti seguiti all' 8 settembre 1943, quando la divisione Acqui venne decimata dai tedeschi, come lui sottolinea "ex alleati" . Nella sua intervista - testimonianza, Annoni ha premesso che, al contrario dei tedeschi, i rapporti con la popolazione locale erano cordiali e lo dimostra il fatto che alcuni soldati mangiavano da famiglie greche e che si aiutavano a vicenda nei lavori. Ha ricostruito poi i fatti a partire dall' 8 settembre: "Il giorno dell' armistizio , noi italiani eravamo contenti perché credevamo di tornare in patria, ma dopo un momento di euforia e di felicità, cominciammo ad avere dei dubbi su quello che sarebbe successo in seguito: i tedeschi sono ancora nostri alleati? Riusciremo a tornare a casa o i tedeschi si prenderanno gioco di noi? Dall' Italia non arrivò nessun messaggio, primo chiaro segnale che eravamo stati abbandonati al nostro destino. Ci furono numerosi incontri e trattative tra il comando italiano e il comando tedesco per decidere le sorti dei due eserciti e alla fine Gandin, sottomesso ai tedeschi, diede l'ordine di consegnare le armi, ma noi soldati non eravamo consenzienti. Il 13 settembre due navi tedesche cariche di soldati e armi, tentavano di attraccare al porto di Cefalonia (protetto da decine di mine a comando), ma Pampaloni e Apollonio le attaccarono costringendole alla ritirata e affondandone una: da allora cominciarono le ostilità con i tedeschi. Il giorno seguente arrivò l'ultimatum tedesco, perciò il generale Gandin chiamò gli ufficiali per discutere sul da farsi. Il 14 settembre, Gandin fece un referendum al 317° e 17° fanteria chiedendo chi volesse combattere i tedeschi e chi no; la maggior parte dei soldati decise di non consegnare le armi e combattere i tedeschi, fu un momento importante. Quello stesso giorno un fatto inspiegabile, una strategia militare sbagliata: il gen. Gandin prese la decisione di abbandonare le alture al centro dell' isola, spostando le batterie e - grave errore tattico - non si sarebbero più potuti battere i punti di sbarco ostacolando i rinforzi tedeschi e proprio in quello stesso punto sbarcarono i rinforzi tedeschi, con l'ordine di annientare i sodati italiani. Dal 15 settembre fino al 23, gli Stukas bombardarono Cefalonia costringendo la divisione Acqui ad arrendersi chiedendo la resa (ricordo con commozione il gen.Luigi Gherzi, ucciso con la bandiera bianca in mano). Una parte dei superstiti (1800 soldati) venne imbarcata, ma le loro navi non giunsero mai a destinazione perché affondarono sulle mine che la marina non aveva tolto (volutamente). Gli altri sopravvissuti, di cui facevo parte, rimasero nei campi di prigionia a Cefalonia dai quali però riuscii a fuggire la notte di Natale, ma solamente per andare a fare gli auguri ad una famiglia greca che mi aveva più volte ospitato. Ricordo con dolore tutte le lettere e le foto dei famigliari dei soldati che gettammo in mare, in quanto quei ricordi rappresentavano l'anima del soldato, morta con loro. Grazie agli inglesi fummo imbarcati ed arrivammo con nostra felicità a Taranto, dove non ricevemmo alcuna onorificenza. Finalmente il 1° Maggio 1945 tornai a Fidenza".
Angela BETTI , figlia di Gino BETTI, morto a Cefalonia il 15.09.1943
Il padre della signora Angela Betti era un radiotelegrafista, ucciso da una mitragliata nel casetto del telegrafo durante il primo attacco tedesco a Cefalonia. La Grecia era lontana dal fronte bellico, tanto che i soldati trovarono un'atmosfera serena. Il signor Betti allevava conigli assieme ad un suo amico, in una situazione resa possibile anche dal clima di amicizia creatosi tra i soldati italiani e la popolazione greca; ne è un esempio il monumento che i Greci hanno fatto ai soldati italiani caduti a Cefalonia. Con la paga del militare, Betti riusciva anche a comprare dell'olio che spediva in Italia, ai suoi famigliari. Nonostante questa situazione di generale "benessere", in una lettera alla moglie il 07/07/1943 Betti scrive : "Si spera sempre che non succeda mai niente.". Questa frase può essere vista in due modi. Può essere semplicemente l' augurio che tutto continui così, oppure può lasciar presagire la possibilità che si verifichino problemi. In questo caso la frase può essere collegata al fatto che durante il periodo luglio - agosto, i soldati tedeschi si preparavano a sostenere il "tradimento" italiano?, come sarebbe confermato nel comunicato del 25 luglio del Comando supremo della Wehrmacht (OKW): "La situazione italiana rimane oscura. Non sono esclusi improvvisi eventi decisivi. Ad essi possono essere legate crisi dell'esercito italiano che esigono un intervento immediato. In questo caso il Comando supremo d'occidente e del sud est hanno il compito di prendere il comando dei settori italiani di loro competenza, di assicurare la difesa delle coste e di mantenere l'ordine nel retroterra. Si devono prendere misure atte a mantenere al nostro fianco le parti dell'esercito italiano e della milizia che desiderano ancora combattere. Le altre vanno disarmate e per quanto possibile internate." [Gian Enrico Rusconi, "Cefalonia, Quando gli Italiani si battono".] Risulta evidente che il Comando tedesco era preparato ad un "tradimento" italiano e quindi aveva già predisposto un piano nell'eventualità di dover gestire il voltafaccia italiano. Da notare è anche il fatto che non si prevede nessun rimpatrio per coloro che non accettano di combattere a fianco dei Tedeschi, ma solo un internamento, molto probabilmente nei campi di concentramento. Dopo aver imprigionato e ucciso gli Italiani, i soldati Tedeschi si sono impossessati delle cassette dei soldati Italiani, segno di grande disprezzo verso gli ex alleati.
TESTIMONIANZE... DAI LIBRI LETTI
MARIANO BARLETTA, SOPRAVVISSUTO A CEFALONIA
Nel giugno del 1943 il tenente di complemento Mariano Barletta, in servizio alla Capitaneria del porto di Napoli e insegnante all'Istituto Nautico, riceve l'ordine di partire per una base nelle isole Ionie. Prima destinazione: Santa Maura e poi Cefalonia. Sull'isola che sarà teatro dell'eroico sacrificio della Divisione Acqui trucidata dai nazisti dopo l'8 settembre, ha inizio l'odissea del tenente Barletta e dei suoi compagni.Il suo libro "Sopravvissuto a Cefalonia" è una delle tante testimonianze della vicenda avvenuta circa sessant'anni fa a Cefalonia e che ancora oggi racchiude dei segreti. Il racconto del tenente Mariano Barletta, in servizio alla Capitaneria del porto di Napoli e insegnante all'Istituto Nautico, è soprattutto un diario intimo sul quale egli annotò i ricordi delle sue disavventure: la resistenza, il massacro, la fuga, la clandestinità, la lotta per la sopravvivenza, il rimpatrio. I caratteri del libro sono tipici di una classica storia avventurosa: l'intreccio complesso, l'elemento sorpresa, le difficoltà, i tradimenti, la speranza, la paura e i cedimenti. Ci sono, soprattutto, il sentimento della tragedia e le emozioni dei protagonisti, una profonda dignità umana e il senso della memoria. Esso si colloca tra due momenti, il fascismo e il dopo guerra. Di fronte alla tattica temporeggiatrice di Gandin un gruppo di ufficiali armati si presentò al comandante intimandogli di rifiutare l'ultimatum. Quest'ultimo indisse in tutti i reparti un referendum che ebbe come risultato il rifiuto della resa. Si trattò di iniziative uniche, democratiche e consapevoli, che testimoniano il cambiamento di mentalità in migliaia di italiani cresciuti nell'esaltazione del fascismo e del nazismo. Il sacrificio dei soldati italiani fu un atto di fedeltà, non al fascismo, ma al re e alla patria, determinato da un radicato senso del dovere e dell'onore, da una profonda solidarietà. Questo libro non aggiunge nulla alla ricostruzione storica ma offre una grande varietà di spunti e riflessioni per lo studio storico.
ALFIO CARUSO, ITALIANI DOVETE MORIRE
Il libro di Caruso offre al lettore una dettagliata descrizione dei fatti che avvennero dopo quel tragico 8 settembre, ripercorrendo la storia della divisione Acqui , dal suo sbarco a Cefalonia ( 29 aprile 1941), fino al suo massacro. "Italiani dovete morire": già dal titolo, il quale si configura alquanto emblematico e di sicuro impatto, si possono trarre alcune considerazioni. Esso risuona come una minaccia rivolta ai "traditori" italiani, accusati dai tedeschi di aver rotto l'alleanza che li legava , ma può essere visto anche come un inquietante accenno allo stato di abbandono che sperimentò a sue spese la divisione di Gandin. In questo libro Alfio Caruso ci offre una nuova interpretazione dei fatti di Cefalonia criticando il comportamento tenuto dallo Stato sia durante che dopo il conflitto. Questo atteggiamento infatti, denota una mancanza di rispetto nei confronti dei soldati caduti, partiti per servire il proprio Paese, ai quali, per anni, non è stato concesso nemmeno il ricordo. Il versante giudiziario italiano si è dimostrato, in questo senso, inconcludente e controverso a differenza di quello americano che, per un fatto analogo, non ha esitato a emanare pesanti sentenze quali condanne a morte ed ergastoli. Le conclusioni di Caruso giudicano molto pesantemente l'Italia, "un Paese i cui tribunali civili e militari per dodici anni sono stati impegnati nel decidere se a Cefalonia fossero stati commessi i reati di rivolta, di cospirazione e di insubordinazione...", mossa più da considerazioni "di politica internazionale" che dalla volontà di fare piena luce sugli eventi. Ma probabilmente il vero merito del libro è quello di portare alla luce un dramma aperto a diverse interpretazioni e del quale alcuni aspetti forse non sono ancora chiari, ma che comunque è avvenuto. "Non crediamo che i morti e i vivi di Cefalonia cerchino vendette o rivalse giudiziarie. Forse a loro basterebbe essere ricordati. Ne hanno tutti i diritti."
La trama, in dettaglio: nel libro vengono descritte le vicende della Divisione Acqui. A partire dal 29 aprile 1941, la divisione viene mandata di presidio nelle isole Ionie, in parte a Corfù e la restante parte a Cefalonia. A comandarla, nel giugno 1943 Mussolini designa il generale Antonio Gandin, decorato dai tedeschi sul fronte russo con la croce di ferro e che "ha fama di tedescofilo" (scrive Caruso), perciò ritenuto in grado di intrattenere buoni rapporti con l'allora alleato germanico. L' occupazione è condotta alla buona. Le isole non hanno aeroporti e neppure piste per atterraggi. L'Acqui è fornita soprattutto di muli, asini, qualche cavallo e pochissimi automezzi. Il morale delle truppe si mantiene buono fino a metà '42, quando le notizie provenienti dagli altri fronti cancellano il sogno di una pace imminente o quello di una vittoria. Nel novembre '42 l'aumentata pressione degli alleati nel Mediterraneo muta il valore strategico di Cefalonia che assume notevole importanza. Gandin si dedica a valutare il potenziale bellico della divisione e delle altre unità al suo comando per contrastare un eventuale sbarco alleato. Arriva il 25 luglio 1943 e con la caduta del fascismo, la legione Camicie Nere aggregata alla divisione viene richiamata in Italia. Nel frattempo i tedeschi preparano il piano "Asse" che prevede il disarmo totale con la forza delle forze armate italiane in caso di armistizio. Reso noto l'armistizio con gli alleati, i comandi italiani diramano ordini confusi e contraddittori, e di conseguenza, ogni comandante deve trattare con i tedeschi che, invece, attuano in modo sistematico un piano già valutato. Ma il relativo isolamento del luogo da uno stretto impedisce che i tedeschi, presenti sull'isola ma non in numero preponderante, possano procedere con la stessa velocità che altrove. In compenso le notizie, sia pur frammentarie, arrivano via radio dalla terraferma, e anche dall'Italia, mentre latitano gli ordini precisi del Comando Supremo. La truppa, cui le circostanze hanno dato la possibilità di maturare una volontà di rivincita che, unito ad un sempre più diffuso sentimento antitedesco, spingerà molti uomini, tra cui diversi ufficiali, a sfiorare ed in alcuni casi a varcare i limiti dell'ammutinamento. Anche tra i tedeschi vi sono incertezze, dovute principalmente al fatto che il loro comandante, Hans Barge, ritiene di riuscire a disarmare il presidio italiano con le trattative, mentre il comandante del XXII corpo d'armata da montagna generale Lanz, e soprattutto Berlino, premono per una soluzione rapida ancorché cruenta. Procedono comunque le trattative ma nonostante ciò , i tedeschi procedono a disarmare i capisaldi italiani nella penisola di Paliki, a nord-ovest dell'isola e due batterie di artiglieria puntano aprono il fuoco contro unità tedesche costringendole ad allontanarsi. I capitani Apollonio e Pampaloni affrontano Gandin ed il vicecomandante generale Gherzi in un faccia a faccia oltre i limiti dell'insubordinazione. La tensione cresce; in una circostanza, l'auto di Gandin viene fatta segno di una bomba a mano lanciata da un carabiniere, a significare lo stato di esasperazione ed esaltazione che una parte assai consistente del presidio italiano aveva verso qualunque nemico, vero o supposto. Tra posizioni alterne, quelle rinunciatarie assunte da Gandin per guadagnare tempo in attesa di ordini ed improbabili aiuti e quelle favorevoli ad una soluzione di forza immediata della truppa e di una parte significativa degli ufficiali, i giorni scorrono fino al 14 settembre, data in cui tramite una sorta di referendum, viene rigettato l'ultimatum tedesco. Iniziano le ostilità e l'iniziale vantaggio numerico ( si parla di 6 a 1 ) che aveva spinto molti soldati a sperare in una vittoria, si rivela illusorio, infatti i tedeschi possono contare sull'aviazione: tutte le speranze ben presto si sgretolano sotto le bombe degli Stuka. L'Acqui resiste comunque una settimana. Il 22, dopo la capitolazione delle truppe italiane, Gandin e la stragrande maggioranza degli ufficiali superstiti viene fucilata e molti militari di truppa subiscono la stessa sorte nei giorni immediatamente successivi. Tre navi, stipate di circa 2800 uomini finiscono sulle mine mentre sono dirette a Patrasso. Pochissimi i sopravvissuti. Dopo il massacro, il capitano Apollonio si presenta ai tedeschi e, nonostante avesse una taglia di 5000 marchi, non viene fucilato, ma rimandato tra gli italiani. Da qui accuse di doppio gioco con risvolti anche giudiziari, nonostante le quali "Apollonio uscirà indenne al punto di concludere la sua carriera nell'esercito con il ruolo di generale di divisione". Dubbi anche sul capitano Pampaloni che, avendo passato il suo tempo dopo il massacro con i partigiani greci (ELAS), è sospettato di filocomunismo. L'11 novembre 1944, due cacciatorpediniere italiani, riportano in Italia in un clima di aperto attrito con i partigiani dell'ELAS il Raggruppamento Acqui, compreso l'armamento pesante, due gruppi di cannoni ripresi ai tedeschi. Sarà "l'unica unità italiana alla quale gli anglo-americani consentono di tornare a casa armata e con la bandiera. Un privilegio costato 9406 morti." Nei capitoli finali, viene fatta un'analisi del seguito giudiziario, compreso l'esito del Processo di Norimberga nel quale furono giudicati 12 alti ufficiali tedeschi. La pena più grave fu quella inflitta a Lanz: 12 anni per la fucilazione di Gandin e del suo Stato Maggiore. Ne scontò solo cinque. In Italia il seguito fu affidato ai tribunali militari, partendo dalle denunce di due genitori di ufficiali. A fronte di trenta militari tedeschi accusati di reati gravissimi, ventisette italiani furono processati, e Caruso stigmatizza ampiamente la vicenda. Infine nel 1957, tutti gli imputati italiani vennero prosciolti, insieme a ventuno dei trenta tedeschi. Gli altri rimasero comunque impuniti per sopravvenuta morte o impossibilità di identificazione.
TESTIMONIANZE... DA ALCUNI GIORNALI E DAI SITI WEB
Il racconto inedito di un ufficiale della divisione Acqui decimata dai nazisti nell'isola greca dopo l'8 settembre
"Nell'orrore di Cefalonia scampai alla furia tedesca" di MARIANO BARLETTA
Dalla tragedia di Cefalonia, dove la divisione Acqui fu massacrata dai tedeschi, affiora la testimonianza di uno scampato, Mariano Barletta, scomparso nel 1984. Il figlio dell'autore l'ha "donata" al sito Internet dell'Anpi. Questo è il capitolo che racconta l'eccidio. GIUNSE poco dopo un ufficiale tedesco in motocicletta seguito da un'autocarretta e, appartatosi a dare segrete istruzioni al capo pattuglia, ordinò poi che noi ufficiali vi montassimo. Qualcuno domandò se ci era consentito portare i bagagli ed egli, dopo breve esitazione, rispose di si, purché avessimo fatto presto. Alla svelta, con i miei tre amici e Baldini, ritornai nella casa, misi la coperta a tracolla e, reggendo da un lato la valigia e dall'altro l'involto fui di nuovo sulla strada. "Comandante" - mi disse Baldini mentre tra i primi montavo sull'autocarretta - "Posso venire anch'io?" "Mio caro, se è per me vieni pure!" Visto che nessuno vi si opponeva egli montò felice di non separarsi da me. Nel frattempo, sopraggiunse il maggiore Pica con i suoi artiglieri e, constatato che sull'autocarretta c'era la mia ordinanza, ritenne che ciò per un'esplicita autorizzazione e, soddisfatto che i tedeschi ci usassero tanto riguardo, chiamò il soldato al suo servizio e gli disse di seguirlo. L'autocarretta si mise in moto e, traballando per il sovraccarico di uomini e per le affossature della strada, si avviò verso Faraò; oltre l'autista, erano con noi due soldati dei quali uno, armato di mitragliatrice, portava a tracolla un lungo nastro di lucidi proiettili. All'altezza della bicocca ove si erano acquartierati i miei marinai, superammo con difficoltà un'interruzione della strada causata da una bomba e quindi, nel più assoluto silenzio, proseguimmo lentamente verso l'ignota destinazione. Era convincimento di ognuno che saremmo stati rinchiusi in qualche edificio del capoluogo e, pertanto, grande fu la sorpresa quando, giunti al bivio dal quale si vedeva lo sconquasso della palazzina ove era installato il comando della batteria, l'autista anziché girare a destra per andare ad Argostoli, girò dal lato opposto dirigendo così verso la spiaggia di Lardigò. "Dove ci portano?" - chiesi fra me e, come se quelle parole non proferite avessero eco sentii che alle mie spalle si sussurrava: "Dove ci portano? Dove ci portano?" Superato il bivio, nel silenzio sempre più grave di noi tutti, l'autocarretta continuò la sua lenta marcia per la strada in discesa sotto un bel cielo terso, tra i campi che, assolati e spogli per la recente mietitura, dall'uno e dall'altro lato degradavano a terrazze. Io che ero in piedi, alle spalle dell'autista, cominciai a vedere l'estrema punta di Lardigò, il mare e l'isolotto Verdini con l'alto faro che si stagliava netto nel barbaglio dell'acqua: il placido aspetto della natura faceva contrasto all'arrovellarsi della mente, al tumulto del cuore. Ad una svolta, c'imbattemmo nel capitano commissario Pozzi e nel tenente Seggiaro, comandante della 208 che tranquillamente risalivano a Faraò. Meravigliato, come se non sapesse che la situazione era irrimediabilmente disperata fin dalla sera precedente, con molta ingenuità Pozzi domandò come mai le ostilità erano terminate così presto. Mentre qualcuno gli diceva che non si poteva fare diversamente, l'autocarretta si fermò ed uno dei tedeschi, avvicinatosi ai due, li disarmò e s'impossessò dei loro oggetti di valore fra i quali faceva spicco il vistoso orologio d'oro del capitano. Compiuta quell'ennesima rapina il soldato che pareva avesse la facoltà di comandare, ci ordinò di scendere dall'auto carretta. Restammo sorpresi: perché mai se dall'uno e dall'altro lato della strada non c'erano che campi deserti? Che compito avevano quei tre soldati? Ad uno ad uno venimmo giù e già pensavo con cruccio alla marcia chi sa quanto lunga, che forse avrei dovuto compiere sotto i dardeggianti raggi solari, col pesante scomodo bagaglio quando con nostra maggiore sorpresa ci fu ordinato di deporre valigie, cassette, fagotti sul ciglio della strada e di disporci in fila indiana. Senza scambiare tra noi neanche un'occhiata, ci allineammo sotto lo sguardo arcigno di quei tre cavalieri della nuova apocalisse e ci ponemmo in marcia, discendendo verso il mare; uno dei tedeschi era in testa, quello con la mitragliatrice era in coda. Ad un tratto, un ufficiale non si trovò più allineato ed il tedesco che fuori riga sorvegliava che tutto procedesse secondo il suo sinistro proposito, si adirò, proruppe in roche parole di rabbia, poi tutto ritornò nell'apparente tranquillità di prima: si udiva soltanto lo scalpiccio dei passi ed il frinire delle cicale. All'improvviso, il capofila volse a destra e saltò in un campo e noi, per non dare pretesto ad una feroce rappresaglia, lo seguimmo mansueti avendo cura di mantenerci allineati onde evitare che l'iracondo soldato si adirasse. Ero al terzo posto; quando tutti fummo nel campo, il capofila sostò e, prima ancora che potessi rendermi conto di ciò che si preparava vidi un capitano che mi precedeva alzare le braccia e gridare: · "Kamedad! Kamerad!" - Mi volsi istintivamente a destra e quanto vidi mi fece raccapricciare: il tedesco che ci aveva seguiti con la mitragliatrice ed il luccicante nastro di proiettili a tracolla era a cinque, sei metri da noi, disteso a terra, davanti all'arma già postata sul bipede e si accingeva a fare fuoco. In un attimo mi fu chiaro ogni cosa ed ogni mia residua illusione, ogni mia estrema speranza si spense nella morsa che mi strinse il cuore. Ora sapevo bene dove mi avevano condotto quei tre masnadieri travestiti da soldati: ero alle soglie del sonno eterno! Fortemente turbato, non pensando alla vanità della protesta verbale, mi unii all'alto coro esecrante degli altri che cercavano far valere il nostro diritto alla vita, ma quel tale dei tre che aveva la facoltà del comando, ripeteva inflessibile: "Nein, nein!" Quante volte, esposto al pericolo, avevo pensato che anche per me potesse scoccare in guerra l'ora suprema e quasi mi sentivo pronto al duro evento, ma ora che l'ipotesi si era tramutata in realtà, ora che la nera costellazione culminava sul mio orizzonte e mi diceva: - "Vieni!" - quanto travaglio della mente, quant'agitazione dell'animo! Morire! ... Si, presto o tardi tutti dobbiamo morire ed il pensiero della morte è sempre presente a chi non vive di solo pane, ma quanta tristezza lasciare la vita a quel modo! Con l'avidità di chi sta per perdere un sommo bene e vuole goderne il più che sia possibile, con rapidità vertiginosa vidi le arene vicende della mia vita; vidi l'infanzia triste, la grama fanciullezza, la travagliata adolescenza, le prime faticose affermazioni, l'avvenire che avevo sognato e te, Mamma, vidi e vidi te, Nerina, povere donne, piangerebbe lacrime ancora più amare, e voi due, Elio e Lucio, teneri virgulti, vita della mia vita, ai quali tanto ancora dovevo e nulla più potevo dare, neanche la dolcezza accorata di portare crisantemi ad una tomba. O anime care al mio cuore, o piccole grandi cose che foste l'essenza dei giorni miei, addio, addio! Quanto durò il tumultuoso ricordare, il rapido susseguirsi d'immagini che si rincorrevano come onde spumeggianti di un mare in tempesta? Non lo so. Per l'ultima volta il mio sguardo incontrò Neri, poi la mitragliatrice cominciò a sgranellare il nastro di proiettili e subito vidi Baldini, che mi stava accanto, sollevare le braccia ed abbattersi col viso contratto; nello stesso istante, come se l'avessi già progettato o qualcuno, in quel momento estremo, me l'avesse suggerito, mi lasciai cadere bocconi, come per morte istantanea, e mi mantenni inerte sul terreno. Alla sventagliata della mitragliatrice seguì un profondo silenzio. Ero disteso con la gamba destra allungata, la sinistra leggermente piegata nel ginocchio, le braccia in lieve arco intorno alla testa e le mani come rattrappite; trattenendo il respiro, quasi reprimendo i battiti del cuore, procuravo che ogni cosa avesse in me l'aspetto dell'abbandono esanime della morte. Attraverso le palpebre socchiuse nulla potevo vedere oltre il palmo di terriccio a contatto del viso, né percepivo voci o rumori: unico segno di vita il monotono frinire delle cicale. In quel breve silenzio, che per me fu lungo quanto lo sono i secondi nei momenti gravi, sentendomi illeso e non ascoltando lamenti o respiri difficoltosi, mi domandai se tutta quella faccenda non fosse una diabolica burla di quei tre soldati, ma ebbe breve durata quella troppo ingenua supposizione. Presto avvertii il rantolo dei moribondi e, poco lontano, alla mia destra, un sordo stridore, uno scatto metallico, ed infine un cupo sparo: il soldato tedesco che con tanta perizia ci aveva condotto a morire, che alle nostre proteste aveva risposto inflessibile: - "Nein, nein!" - quello stesso soldato, in ossequio alle leggi umanitarie della guerra, veniva a darci il colpo di grazia, lui tanto buono, per non farci soffrire! Dopo ognuna di quelle esecuzioni supplementari, sentivo i lenti passi striscianti del pio giustiziere che si avvicinava.Davanti alla mitragliatrice, con l'animo stretto da grande angoscia, non mi fu certamente facile conservare il sangue freddo e superare il terribile istante oltre il quale mi attendeva la morte, ma quanto mi fu più difficile rimanere inchiodato lì, a terra, pieno di vita, col cervello più lucido che mai, senza contrarre un muscolo, senza un battere di ciglio e attendere, per la seconda volta, che si compisse il destino. La trepidazione giunse all'apice. Dai passi avvertii che il soldato si appressava, che si era fermato non lontano da ma dal lato dei piedi; dallo stridore metallico mi resi conto che il proiettile veniva immesso nella canna, ed infine udii il cupo fragore: per la seconda volta ero illeso; ritenendo forse che già fossi nel mistero dell'oltretomba, il soldato aveva diretto il colpo ad uno dei due infelici morituri che, ciascuno per lato, mi stavano accanto. Seguirono ancora altri spari poi l'esecuzioni complementari terminarono e lo scalpiccio del pio giustiziere si perdé lontano, ma io continuai a rimanere immobile, come per una gara di resistenza, mentre, per lo stato emotivo e la forte radiazione solare, il sudore gocciolava copioso lungo l'orlo della visiera ed il rantolo dei moribondi, dapprima lieve, si faceva sempre più roco e straziante. (25 aprile 2001)
Si rompe in Germania la "congiura del silenzio" sull'assassinio dei 5000 soldati italiani: due diari rivelano particolari raccapriccianti
La strage di Cefalonia con gli occhi degli aguzzini
"Li portano vicino al ponte e li fucilano. Le grida arrivano fin nelle case dei greci"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - Il massacro di Cefalonia raccontato dalla parte dei carnefici. L'assassinio sistematico di cinquemila soldati italiani della Divisione Acqui, che si erano già arresi ai tedeschi dopo l'8 settembre 1943, nella testimonianza di alcuni alpini della Wehrmacht, che videro l'orrore e vollero confidare ai diari personali il disgusto e l'onta: "È una vergogna come si comportano i soldati tedeschi". Si rompe per la prima volta in Germania la congiura del silenzio. Grazie a due ex soldati dell'esercito hitleriano e ad alcune testimonianze inedite, la strage dell'isola greca può essere adesso ricostruita in tutta la sua agghiacciante brutalità. Il diario dell'alpino Waldemar Taudtmann e del suo superiore, Alfred Richter, sono al centro della puntata di History, programma di storia della Zdf, che la seconda rete pubblica tedesca dedica questa sera a uno dei crimini più efferati e meno conosciuti della Seconda Guerra Mondiale. La Süddeutsche Zeitung ne ha anticipato ieri ampi estratti. "Non si faranno prigionieri, tutto ciò che appare davanti agli occhi verrà abbattuto", nota Taudtmann sul suo quaderno, la mattina del 20 settembre. È il prologo della mattanza. L'ordine è verosimilmente venuto da Hitler in persona, anche se l'altro testimone, il sottufficiale Richter, preferisce non crederci: "Dubito - scriverà due giorni dopo, a scempio già compiuto - che un simile ordine sia mai arrivato, penso piuttosto all'ubriacatura dispotica dei comandanti, per i quali la vita delle persone non è che un numero". E i numeri di Cefalonia sono tali che anche alcuni fra i tedeschi ne rimangono atterriti. "Fucilati, abbattuti, calpestati con gli scarponi da montagna, gli uomini dell'artiglieria costiera giacciono ancora ai loro posti", annota Richter il 21 settembre, nel vedere i corpi senza vita dei soldati di una postazione italiana. Una giornata tragica, la prima dell'autunno 1943. Al mattino, il 98mo reggimento del III battaglione degli alpini tedeschi riceve l'ordine di attaccare la città di Diglinata e neutralizzare le due compagnie italiane che la controllano. Ma lo scontro in pratica non c'è. Ecco il racconto di Richter, in forza a un'altra unità: "Vengono sparati soltanto pochi colpi, poi gli italiani agitano i fazzoletti bianchi e cominciano a venir fuori a gruppi, correndo. Ma quando noi raggiungiamo l'altura, li troviamo tutti per terra, morti, sono tutti stati colpiti alla testa. Quelli del 98.mo li hanno dunque uccisi dopo che si erano arresi". Ma l'esperienza peggiore è quella del pomeriggio, quando il battaglione di Richter accetta la resa di altre due compagnie di alpini degli ex alleati: "Non vogliono combattere contro di noi e pensano di aver salvato la vita arrendendosi. Torniamo a Frangata e consegniamo i prigionieri. Ma qui li attende una sentenza terribile. Li portano vicino al ponte, nei campi recintati da muri fuori dalla città, e li fucilano. Rimaniamo due ore sul posto e per tutto il tempo sentiamo i colpi senza interruzione..., le grida arrivano fin nelle case dei greci. Anche medici e preti partecipano alle esecuzioni... Un gruppo di soldati bavaresi prova a rifiutarsi, ma un ufficiale li minaccia di mettere anche loro al muro. Fa una figura tragicomica un prigioniero, che si salva la vita salendo su una pedana e cantando con bella voce arie d'opera italiana, mentre i suoi compagni vengono uccisi". Cefalonia non fu il primo, né l'ultimo crimine di guerra di cui si macchiarono gli alpini nazisti in Grecia. Come spiega alla Zdf lo storico di Colonia Carlo Gentile, già nell'agosto 1943, nel villaggio di Kommeno, oltre 300 persone, in pratica l'intera popolazione, erano state trucidate, molte donne violentate e poi bruciate vive. Mentre, il 4 ottobre dello stesso anno, un altro commando di "Gebirgsjaeger" fucilò il generale italiano Ernesto Chiminello e 130 ufficiali: "I loro corpi - è sempre il diario di Richter a riferirlo - furono gettati in mare con delle pietre appese alle gambe". Alla congiura del silenzio, che per oltre cinquant'anni ha tenuto nascosti i dettagli di Cefalonia, hanno contribuito, come spiega la Süddeutsche Zeitung , "le associazioni degli ex combattenti, la giustizia e anche apparati governativi". Così, un'indagine dei giudici di Dortmund del 1965 non venne mai resa pubblica. E, nel 1973, una richiesta di intervista della Rai al procuratore coinvolto, complice anche il rifiuto del ministero degli Esteri, venne rifiutata. (Paolo Valentino, Corriere della Sera, Domenica 25 marzo 2001)
L'orrore e l'orgoglio dei reduci. "Urlammo: non siamo vigliacchi" Sull'isola dell'eccidio dei diecimila soldati italiani con il presidente Ciampi e cinquanta sopravvissuti
CEFALONIA - Il vento freddo scende dalle montagne, ma il gelo di Nicola Russigno, 80 anni, arriva dalla memoria. "Quando lo racconto, non mi credono. Eppure su quest'isola, nel settembre del 1943, c'erano i miei colleghi ufficiali che si offrivano volontari per la fucilazione. "Vado io, così la facciamo finita". C'era quasi una gara per andare prima degli altri davanti al plotone. Ecco, se si capisce una cosa come questa, si può comprendere cosa sia stata la tragedia di Cefalonia". Quella di Nicola Russigno, sottotenente di Taranto, è una delle 11.500 storie italiane di quest'isola greca che sembra troppo piccola per una guerra così crudele. Diecimila soldati assassinati dall' esercito tedesco, e gli altri millecinquecento che da allora vivono nel loro ricordo. "Quella è la Casetta Rossa. Non era così, allora, ma ha mantenuto lo stesso colore. Io e gli altri ufficiali fummo portati lì, dopo la resa. Appena scesi dal camion abbiamo capito tutto. C'era il prete, don Formato, con la croce in mano che confessava e benediceva. Ci prendevano quattro alla volta, ci portavano sull'orlo di un fosso, e sparavano. Così i corpi sparivano. Per questo tanti si sono offerti volontari: meglio morire subito, che stare lì in agonia. Io mi sono salvato perché ero nell'ultimo gruppo. Avevo già dato una fotografia a don Formato, perché la mandasse a mio pare, e il prete si è messo a gridare: "Basta, soldati tedeschi. Ne avete ammazzato abbastanza, state fucilando da questa mattina. Salvate almeno questi ultimi". E così ci hanno tenuti come prigionieri". Sono rimasti solo gli eucalipti, a ricordare quel settembre di guerra. Prima le bombe dei tedeschi, poi il terremoto del '53, hanno cambiato il volto di Argostoli, il capoluogo dell'isola. Solo questi alberi profumati permettono di rintracciare il viale che allora si chiamava Principe di Piemonte. Partiva da piazza Valianos e arrivava a San Teodoro, dove adesso c'è il monumento ai Caduti italiani, e la fanfara suona "Fratelli d'Italia" davanti al Presidente. Nel cuore dei cinquanta soldati di allora, portati sull'isola da un aereo dell'Aeronautica militare, l'orgoglio oggi è più forte della tristezza. Dopo Sandro Pertini, che venne qui nel 1980 e disse che questo olocausto è stato dimenticato "per omertà tedesca e ignoranza italiana", adesso Azeglio Ciampi, davanti alle pietre di granito nero, ripete che "qui è nata la Resistenza italiana". Ci sono gli elicotteri pronti per portare i reduci a pranzo sull' ammiraglia Garibaldi. "Aerei, elicottero, navi. Fossero arrivati allora". Luigi Baldassari, classe 1916, è tornato qui dalla Valsugana. "Abbiamo deciso di resistere, di non consegnare le armi ai tedeschi, soprattutto perché, di quelli là, non ci fidavamo. E poi il governo che era in esilio a Brindisi aveva detto: resistete. Gli ufficiali, soprattutto quelli di grado più basso, ci dicevano: bisogna fare qualcosa, dobbiamo guadagnarci dei meriti. Se combattiamo contro i tedeschi, gli Alleati arriveranno a darci una mano, e così potremo tornare a casa presto. Ma siamo stati fregati. Il Re? Non sapevamo nemmeno che fosse scappato, in quei giorni. Eravamo stanchi della guerra, ma non volevamo fare la figura dei vigliacchi di fronte ai tedeschi. Così, in una sola notte, tutti noi soldati abbiamo detto agli ufficiali: non ci arrendiamo". Amos Pampaloni, l'uomo che per primo ordinò il fuoco della sua batteria contro tre zatteroni tedeschi che portavano carri armati e uomini in rinforzo alla Wehrmacht (in sfregio alla tregua concordata) anche oggi ha idee precise. "Non ci sarebbe stato il massacro se il Re, invece di scappare, avesse dichiarato subito la guerra alla Germania. In quel momento, sull'isola, c'erano 11.500 italiani e 3.000 tedeschi. E invece no, siamo rimasti lì ad aspettare, e intanto la Wehrmacht organizzava la sua aviazione. Le scuse della Germania per il massacro? A cosa servono, ormai. Diamoci da fare, invece, per fermare le quaranta guerre che anche oggi si possono contare nel mondo". L'ex capitano ce l'ha anche con il romanzo dell'inglese Luis de Bernieres, "Il mandolino del capitan Corelli", che ha ispirato un film che presto sarà nelle sale. "Ho letto il libro, e posso dire che è razzista. Sarei io, il capitano Corelli, e dal mattino alla sera non farei altro che suonare il mandolino, organizzando concerti e cori, con qualche vacanza al mare con le prostitute. Sì, ho saputo che al presidente Ciampi il libro invece sarebbe piaciuto, e io gli ho detto: "Lei il libro l'ha solo sfogliato, vero?", e lui si è messo a ridere". Ci sono anche i figli dei morti, oggi sull'isola. "Mio padre, Egidio Gelera, è caduto su quella montagna là, tutta sassi. Come potevano scappare agli Stukas? Quella gola si riempì di morti. Mio padre l'ho visto quando avevo sette anni, era venuto in licenza, e mi portò con lui a caccia". Inni e preghiere anche davanti al monumento dei Caduti greci, poi una corona di fiori viene gettata in mare dal Garibaldi per ricordare coloro che morirono nelle navi in fuga, dilaniati dalle mine. Suona il silenzio, e un plotone scarica tre raffiche in aria. Qualcuno di coloro che sono tornati, con la scritta "Reduce" sul petto, tenta un saluto militare. Altri si mettono a piangere, come Domenico Bellaria di Termini Imerese. "Io quei morti in mare li ho visti. E i tedeschi sparavano ai sopravvissuti". Le tre raffiche portano tutti indietro, a quel settembre del '43, quando l'uva era matura e i camion scaricavano i prigionieri italiani alla fine del viale degli eucalipti. Figli e nipoti sostengono i vecchi. "Io vorrei avere un'ora in più, su questa isola", dice il sottotenente Nicola Russigno. "Quando i tedeschi mi presero, io non consegnai loro la pistola. L'avevo nascosta in un bosco, perché speravo di riprenderla, di vendicare la strage. So dov'è e vorrei portarla a casa, la mia Beretta, ricordo di quei giorni". E delle notti in cui, nella vicina Itaca, si guardavano i fuochi di Cefalonia, senza sapere che si stavano bruciando dei soldati italiani. (JENNER MELETTI La Repubblica2 marzo 2001 )
ECCIDI Avviata la raccolta di firme per ottenere dal governo tedesco un atto formale che renda onore ai soldati italiani trucidati nell'isola greca nel '43. Intanto emergono i verbali di un'istruttoria archiviata
CEFALONIA: 11.700 motivi per chiedere scusa
di AURELIO LEPRE
L'armistizio dell'8 settembre 1943 mise gli ufficiali e i soldati italiani, soprattutto quelli che si trovavano all'estero, in una situazione drammatica. Non furono, infatti, impartiti ordini; fu detto solo, nell'annunciare l'armistizio, che le truppe avrebbero reagito con le armi contro eventuali attacchi, da qualsiasi parte fossero venuti. L'isola di Cefalonia era presidiata dalla divisione Acqui. La notizia dell'armistizio colse i suoi uomini di sorpresa. Fino ad allora l'attività di presidio non aveva comportato impegni militari gravosi. Il volto feroce della guerra si rivelò d'improvviso, nel momento in cui si apriva una speranza di pace, e la morte venne da parte di coloro che, fino a quel momento, erano stati considerati alleati. Per questo, l'eccidio di Cefalonia può essere visto come uno di quei fatti che rivelano, di tanto in tanto, la tragica ironia della storia. La divisione Acqui era sola, in un territorio diventato improvvisamente nemico. In condizioni difficilissime, 11.700 uomini dovettero compiere una scelta. Erano stati abituati, quei soldati, a obbedire agli ordini; le circostanze li costrinsero a scegliere senza avere nessun altro punto di riferimento che il proprio senso dell'onore. Avevano giurato fedeltà al re e mantennero fede al giuramento, nonostante fossero stati abbandonati a se stessi. I cinquemila, tra ufficiali e soldati, fucilati dopo essere stati imprigionati, furono vittime di una strage che violava ogni legge di guerra, perché non vennero uccisi in battaglia, ma quando si erano già arresi. L'eccidio di Cefalonia può essere perciò paragonato a quelli commessi contro i civili disarmati a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine, a Civitella Val di Chiana. I morti di Cefalonia sono rimasti a lungo dimenticati. Sarebbe però ingiusto dire che questa perdita di memoria è dovuta alla volontà di nascondere l'apporto dei monarchici alla lotta contro il nazismo. Gli storici della Resistenza hanno ricordato non solo l'attività delle loro formazioni, ma anche il contributo di conoscenze tecniche, spesso fondamentale, che gli ufficiali rifugiatisi sulle montagne diedero ai primi reparti partigiani. Sono rimaste, invece, nell'ombra le vicende delle centinaia di migliaia di militari che al momento dell'armistizio si trovavano oltre le frontiere. La loro storia è ancora tutta da scrivere. Intanto, è giusto ricordare il sacrificio della vita che gli uomini dell'Acqui offrirono all'Italia nel tragico settembre del 1943. (Corriere della Sera 19.12.2000)
"Insabbiammo la strage di Cefalonia"
ROMA - La strage di Cefalonia, nella quale nel settembre 1943 furono massacrati dalle truppe tedesche 6.500 soldati italiani, fu insabbiata nell'autunno del 1956 in nome della ragione di Stato. Lo riconosce il senatore a vita Paolo Emilio Taviani, 88 anni, all'epoca ministro democristiano della Difesa, in un'intervista che appare oggi sul settimanale "L'Espresso". A Cefalonia i soldati della divisione Aqui furono selvaggiamente massacrati dopo essersi arresi. L'ordine, impartito da Hitler, venne eseguito con determinazione inumana. "È stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato", disse il rappresentante dell'accusa al processo di Norimberga. Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti si batterono perché i 31 militari tedeschi responsabili di quell'eccidio venissero processati. Ma la politica non permise di arrivare al processo. Nell'ottobre del 1956 Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrisse a Taviani, ministro della Difesa, proponendogli in sostanza l'affossamento di ogni percorso di giustizia. E ciò in nome della risurrezione della Wehrmacht, cioè dell'esercito tedesco, necessario alla Nato in funzione anti-Urss. Taviani pose una sigla di assenso sulla lettera di Martino. E oggi non intende "minimizzare": "Il mio consenso - ammette - contribuì certamente a creare" quella che il settimanale definisce "la sepoltura della giustizia". Sottolinea tuttavia che "la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise": "In quei giorni l'Unione Sovietica stava invadendo l'Ungheria ... Aveva ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per l'orrendo crimine di Cefalonia avrebbe colpito l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo...". Dura la reazione della medaglia d'argento al valor militare Amos Pampaloni, uno dei pochi sopravvissuti alla strage: "Il senatore Taviani si dovrebbe solo vergognare. È da tempo che sapevo del suo tacito assenso sull'insabbiamento dell'inchiesta della magistratura militare sull'eccidio di Cefalonia, cosa che oggi rivendica quasi come un'azione meritoria compiuta in nome di una ragione di Stato a mio giudizio incomprensibile". "La cosa ancora più grave - ha detto ancora Pampaloni - è che negli anni Cinquanta non solo fu insabbiata la strage di Cefalonia, ma anche le inchieste di altri 690 crimini nazifascisti". Ma dell'insabbiamento di tali crimini Taviani non sa niente. "La tragedia di Cefalonia, orribile, feroce, inumana - dice - era stata provocata dalla guerra, era una coda della guerra, un qualcosa che era avvenuto tra militari. Ben diverso lo sterminio di civili, bambini, donne, vecchi, uomini, gente indifesa, uccisa spesso neanche per rappresaglia. No, io non detti quell'ordine, non l'avrei mai dato neanche per ragioni di Stato". (La Nazione, 10.11.2000)
INCHIESTA Il capitano Pampaloni: "Nel dopoguerra nessuno volle ascoltarci, nemmeno in Italia" "La raccolta di firme per ricordare le migliaia di militari italiani massacrati a Cefalonia dalla Wehrmacht dopo l'8 settembre del '43 è un atto importante, ma rimaniamo perplessi sulla sua efficacia". Amos Pampaloni e Marcello Venturi, per anni gli unici a conservare, attraverso strade diverse, la memoria storica di quell'episodio di guerra, uno dei primi della Resistenza, manifestano entrambi il loro pessimismo sulle reazioni dell'opinione pubblica e dei governi italiano e tedesco, ai quali è rivolto l'appello dei fautori della raccolta. Sono trascorsi 57 anni, troppi, senza che da parte delle istituzioni italiane fossero prese iniziative. E le scuse dei tedeschi, sollecitate nell'appello, per quel massacro compiuto contro militari inermi, avrebbero il sapore di una semplice formalità. Amos Pampaloni, fiorentino di 90 anni, era capitano d'artiglieria e fu lui a prendere l'iniziativa contro i tedeschi ordinando alla sua batteria di far fuoco. Lo conferma la motivazione della medaglia d'argento assegnatagli: "Fu il primo italiano a sparare contro i tedeschi e ad animare la Resistenza a Cefalonia". Dopo la resa, messo al muro dai nemici per essere fucilato insieme ad altri commilitoni, rimase ferito e si salvò fingendosi morto. Venne aiutato dagli abitanti dell'isola che lo curarono e lo misero in contatto con i partigiani. "Sono anni che i reduci di Cefalonia chiedono al governo di ottenere almeno la Croce di cavalieri al merito come quella di Vittorio Veneto assegnata ai combattenti della Prima guerra mondiale - dice amareggiato - ma i ministri e i parlamentari li hanno sempre ignorati. Ormai è tardi per far qualcosa". Marcello Venturi, scrittore e storico, fu il primo, con il suo libro Bandiera bianca a Cefalonia , pubblicato nel '63 da Feltrinelli, a descrivere quel massacro. "Mi occupai di Cefalonia dopo aver letto un articolo di Pampaloni - racconta -; mi recai sull'isola e riuscii a ricostruire quel drammatico episodio". Dopo quell'opera, su Cefalonia è ripiombato il silenzio fino a quando, la scorsa estate, una troupe americana si è recata nell'isola dello Jonio per girare un film ispirato a un romanzo dello scrittore inglese Louis De Bernière. Il libro, Captain Corelli's mandolin (pubblicato in Italia da Longanesi col titolo Una vita in debito ), ricostruisce quell'episodio descrivendo gli italiani con i luoghi comuni cari a certi inglesi: poco coraggiosi, amanti della musica e delle donne. "È servito però ad attirare l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica su quella tragedia", afferma Venturi. Infatti ne hanno parlato i giornali; la Rai ha trasmesso alcuni servizi e pochi mesi dopo è uscito il libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi), che descrive nei particolari il dramma dei militari italiani nell'isola. Proprio nel corso della presentazione ad Acqui Terme dell'opera di Caruso, è nata l'iniziativa di presentare la petizione per la raccolta delle 11.700 firme, un numero che corrisponde ai militari della divisione "Acqui" di stanza a Cefalonia. La battaglia era scoppiata il 13 settembre dopo che il comando tedesco aveva imposto agli italiani di cedere le armi. C'erano stati alcuni giorni di trattative promosse dai tedeschi, il cui presidio si trovava in difficoltà per scarsità di effettivi (uno a dieci rispetto agli ex alleati) e mezzi. In un primo tempo gli italiani, comandati dal generale Gandin, manifestarono incertezza soprattutto perché da Badoglio era arrivato l'ordine generico di non cedere, mentre il comando di Atene aveva ordinato di arrendersi. Gli scontri scoppiarono perché, nonostante le trattative in corso, i tedeschi incominciarono a fare affluire rinforzi proprio quando Gandin aveva ordinato alle sue truppe di abbandonare le posizioni strategiche. La resa avvenne dieci giorni dopo: gli italiani caduti nei combattimenti furono 1300 e più di 6000, compreso il comandante, vennero massacrati dalla Wehrmacht, nonostante avessero deposto le armi. Soldati con le mani alzate uccisi a colpi di mitragliatrice; centinaia di feriti scaraventati fuori dagli ospedali e trucidati. Degli scampati, circa 3000 morirono nelle stive delle navi affondate dalle mine durante il trasporto al Pireo. L'eccidio fu voluto dal generale Hubert Lanz, comandante dell'armata tedesca dell'Epiro, che in seguito si giustificò affermando che l'ordine venne direttamente da Hitler. A oltre sessant'anni da quel massacro le migliaia di vittime non hanno ancora ottenuto giustizia. Di Cefalonia si occupò il Tribunale di Norimberga ma solo perché Lanz comparve come imputato per altri crimini commessi nell'Epiro. Nelle sue deposizioni piene di falsità, il generale definì i militari italiani non combattenti, ma "ribelli" e "franchi tiratori" che andavano quindi fucilati. Fu poi la Procura generale di Dortmund a occuparsi dell'eccidio con un'istruttoria aperta dopo l'uscita del libro di Venturi. Il procuratore di Stato Nachtweh ascoltò 231 testimoni, tutti tedeschi tranne due italiani, Venturi e il cappellano militare Ghilardini, e due greci. Dopo quattro anni, nel '69 fu emanata la sentenza di archiviazione. Pochi giorni prima il quotidiano tedesco Die Welt aveva criticato duramente il libro di Venturi definendolo "la solita falsa campagna contro l'esercito tedesco". Ma se l'archiviazione di Dortmund venne data per scontata, è sconcertante il fatto che in Italia non ci furono reazioni. La nostra magistratura si era mossa prima, ma in senso contrario. L'unico atto giudiziario su Cefalonia era stato promosso nel '54 per iniziativa di Roberto Triolo, un giudice genovese che aveva perso il figlio in quell'isola. In seguito alle pressioni del magistrato, dopo una lunga vicenda giudiziaria, la Procura militare nel '57 chiese il rinvio a giudizio di Pampaloni e di altri ufficiali italiani per aver compiuto atti ostili contro i tedeschi e aver quindi provocato la loro reazione. Ma alla fine prevalse il buonsenso e il giudice istruttore prosciolse gli imputati. "L'ex ministro Taviani ha spiegato recentemente che il governo tacque per non irritare la Repubblica federale tedesca, alleata preziosa durante la Guerra fredda - ricorda Venturi -. Ma secondo quella logica non avrebbero dovuto essere ricordate neanche le vittime delle Ardeatine, di Marzabotto e di Sant'Anna di Stazzema". (Ettore Vittorini Corriere della Sera 19.12.2000)
La Bandiera di Venturi vittima di un plagio Dopo l'armistizio, nel settembre '43, la Divisione Acqui che presidiava l'isola eolia di Cefalonia, fu sterminata dalle truppe germaniche per avere gli italiani rifiutato la resa incondizionata. I militari trucidati - erano artiglieri - furono più di novemila. E' stata una delle pagine più drammatiche della nostra sconsiderata storia bellica, ma fu anche quella meno ricordata a fronte di altri eventi del tempo, incluso quello partigiano, quasi che l'essere stati uccisi con le stellette sulla divisa gravasse come un'onta sull'intero esercito italiano. Un regista americano, John Madden, si è ora ripromesso di ricavarne un film, con due noti attori protagonisti: Nicholas Cage e Penelope Kruz. Gli elementi per imbastire la trama li ricaverà da un autore inglese, Louis De Bernieres, che sta ottenendo vasto successo con un libro: "Il mandolino del capitano Corelli", se tradotto in italiano. Purtroppo, già il titolo, particolarmente irridente, dà la misura dei luoghi comuni che perseguitano gli italiani nel resto del mondo: una chitarrata, "o sole mio", una pizza, e il gioco è fatto: puoi anche andare "a farti morì ammazzato". C'è pure un'ombra di plagio in una vicenda sentimentale che molto ricorda quella analoga del capitano Aldo Puglisi con Caterina Pariotis nella rievocazione, proposta con precisa documentazione e sofferta partecipazione, da Marcello Venturi in "Bandiera bianca a Cefalonia", Pubblicato nel 1963, questo libro ebbe immediato successo e fu tradotto in quattordici lingue. Nulla in esso fu nascosto: dallo sbando di migliaia di uomini lasciati in balia di se stessi - qui come in altri innumeri fronti e negli stessi confini della patria - all'estenuante tergiversare degli alti comandi che favorirono le spietate soluzioni finali decise dall'ex alleato. Ma proprio per questo suo crudo realismo, che aveva anche attirato le attenzioni di Simone Wiesenthal, si giocò al nascondino perché la bruciante verità non pareva consona con l'opportunismo politico, almeno in quel periodo. Ora questo libro è ricomparso nella collana: "Ventesimo Secolo. La Storia e gli Scrittori" della casa editrice "Le Mani" di Recco. La stessa collana, diretta da Francesco De Nicola, che ha già pubblicato opere di Giovanna Zangrandi, Liana Millu, Elena Bono, ha pure riproposto "Combattere con le ombre" di Nelio Ferrando, la cui prima edizione è del 1949. L'autore genovese, colto in Grecia dall'armistizio - era tenente di fanteria - e rinchiuso in diversi lager tedeschi, ha descritto dal vivo questa situazione sua e dei suoi colleghi d'arma, in pagine che restano testimonianza dell'assurdità della guerra, delle sue atrocità, alle quali solo si sopravvive nel nome della propria dignità e della propria libertà interiore. Anche qui, come pure è accaduto per la drammatica vicenda di Cefalonia, il sottile filo dei sentimenti lega due vite, quella di Alberto e di Fula, quasi a ricordare che il volersi bene, nel segno della comprensione e della solidarietà, non ha confini territoriali. Sono pagine delicatissime, con un uso della buona lingua - qui, come in Venturi - della quale si rischia oggi di perdere ogni fragranza, che delineano anche psicologicamente figure palpitanti e solo in apparenza fragili. Sono due libri, dunque, che vivono anche nel segno dell'arte e non solo perché da considerare classici della letteratura di guerra.
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