caso Moro
ricostruzione e analisi

Di Barbara Fois

Sono passati anni da quel giorno di marzo che cambiò la vita di questo paese. Ed è ormai rituale chiedersi “tu come l’hai saputo? Dov’eri?” come si fa per i grandi eventi epocali.

Erano circa le 9,30 quel giovedì 16 marzo 1978 ed io ero appena entrata nell’atrio di Facoltà, quando una collega mi si avvicinòstravolta “Hai sentito la notizia terribile?” io scossi la testa in silenzio, allarmata, lei continuò con la voce soffocata “Hanno rapito Moro e massacrato la sua scorta. Li hanno ammazzati tutti!!” Rimasi lì come un’allocca, cercando diinghiottire la notizia, mentre lei correva via e, come un’ape operosa che vola di fiore in fiore, si fermava a parlare con un’altra persona. Mi sedetti sulla panca di marmo, lì nell’atrio, cercando di riordinare i pensieri, che sembravano volare impazziti nella mia testa gridando, come uno stormo di rondini. Salire su nel mio studio e fare le cose che avevo in scaletta nell’agenda mi sembrava impossibile: non potevo accettare la normalità di un giorno qualsiasi. Perché niente era più normale. E in quel momento di così forti emozioni, di angoscia e confusione, solo una cosa era chiara, solo di una cosa ero certa: che da quel momento niente sarebbe più stato normale, niente avrebbe potuto essere come prima. Mai più.

Avevo ragione, purtroppo. Quel giorno è stato un punto di svolta, che ha cambiato la rotta nella vita di questo paese. Perché quello di Moro non è stato solo un rapimento con strage, finito con l’ esecuzione crudele di un ostaggio inerme ( e già così sarebbe stato mostruoso e intollerabile in un paese civile), ma è stato molto, molto di più. Le radici oscure di quel fatto arrivano in profondità e si intrecciano ad altri fatti altrettanto oscuri e spaventosi, che hanno insanguinato e avvelenato questo paese per anni e che ancora ne inquinano la vita sociale e politica. Come in un quadro di Bosch, in quella vicenda niente è come appare e se ci si avvicina si notano dei particolari inquietanti e figure mostruose. Ogni avvenimento ha diversi livelli di lettura, più o meno profonda e non è facile sintetizzare e capire. Equando ti sembra di aver capito davvero, ecco che viene fuori un altro elemento, un tassello che confonde di nuovo tutto il disegno. Proveremo qui a seguire passo passotutta quanta la vicenda.


Il rapimento e la strage

Dagli atti delle inchieste, dalle sentenze (23),dai verbali dei processi ( siamo al “Moro 6”) e della commissione stragi, sembra che ancora non si sia potuta ricostruire con assoluta certezza tutta la meccanica del rapimento.

Per chi non è romano come me capire anche topograficamente la dinamica dell’agguato è fondamentale. Così ho preso alcune cartine di Roma e ho scoperto che in nessunadi esse compare né via Fani, né via Stresa. Solo sul web si trova tutta la mappa, anche se divisa così a quadrati è difficile da visualizzare. Volevo seguire il percorso del “convoglio” di Moro, formato da due macchine, dalla sua abitazione a via Fani. E così scopro la prima di una serie di inesattezze che costellano questa storia e si perpetuano in articoli e testimonianze: la macchina di Moro – seguita daquella della sua scorta – non arriva da via Trionfale, ma da via Forte Trionfale ( dove c’è la casa di Moro e che è molto più a nord dell’altra strada quasi omonima), che si immette curvando a sinistra in via Pieve di Cadore, che a sua volta gira a destra e diventa via Mario Fani. Se non si è precisi c’è il caso di finire in una serie di equivoci : infatti la via Fani scendendo incrocia la via Stresa e, continuando a scendere, si immette ( questa volta sì) in via Trionfale. Dunque quando leggiamo le cronache dell’agguato, con le posizioni dei brigatisti, dobbiamo tener conto di questo particolare logistico, se vogliamo capire. Ci sono già abbastanza cose non chiare e sicure in questa storia!

Per esempio non si sa per certo nemmeno quanti fossero i brigatisti che componevano il commando che agì in via Fani. Perfino i brigatisti che ne facevano parte non sono stati concordi nel numero. Moretti in una intervista a Carla Mosca ha anche sbagliato i nomi e poi si è corretto: la memoria negli anni non è più la stessa…in cose così marginali, poi…

Valerio Morucci – il “postino” delle BR , ma anche uno degli assassini di via Fani, autore di un memoriale e personaggio assai più complesso di quanto abbia voluto apparire – ha raccontatoin diversi tempi la dinamica della strage, facendo prima i nomi di 7 uomini: Mario Moretti, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari, Barbara Balzerani e lui stesso, a cui, diversi anni dopo,aggiunse altri due nomi: Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Infine Mario Moretti ha tirato fuori il nome di Rita Algranati, che – in sella a un motorino – doveva segnalare al commando l’arrivo dell’auto di Moro e della sua scorta. L’Algranati è stata arrestata solo nel 2004 e il Casimirri invece continua a vivere beato in Nicaragua.

Del ruolo della Algranati nella strage di via Fani hanno parlato nel corso degli anni sia Valerio Morucci che Adriana Faranda. "Le unità del commando - ha raccontato la Faranda - erano dieci. Rita Algranati stava all'incrocio con la via Trionfale per segnalare l'arrivo di Moro e della sua scorta a Moretti che era sulla 128 in via Stresa. Casimirri e Loiacono erano di copertura sulla parte alta di via Fani, la Balzerani, invece, era di copertura nella parte bassa all'incrocio con via Stresa; Morucci, Gallinari Bonisoli e Fiore stavano sul marciapiede di fronte al fioraio: loro erano il gruppo di fuoco. Poi c'era Seghetti in via Stresa, nella 132 che doveva servire a portare via l'ostaggio”. La Faranda, come si evince, parla per sentito dire, dato che non si trovava sul luogo dell’agguato. Altrimenti non direbbe una inesattezza come questa: perché l’Algranati avrebbe dovuto stare all’incrocio con via Trionfale, giù in basso, visto che Moro arrivava dall’alto?- Ma anche nei racconti di Morucci e della Balzerani ci sono delle confusioni, delle imprecisioni, delle inesattezze nella ricostruzione della dinamica. Vale la pena di leggersi tutte queste versioni, riportate negli atti dei processi “Moro ter” e “Moro quater”, linkati alla fine di questo articolo.

Il problema del numero dei partecipanti non è certo secondario, visto che c’è il sospetto di partecipazioni “esterne”. Inoltre ci sono ben tre testimoni che parlano di una moto Honda presente sul luogo della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni, l'ingegner Alessandro Marini, che arrivava sul suo motorino, si era visto addirittura sparare una raffica di mitra contro, dall'uomo seduto sul sellino posteriore della Honda. I brigatisti però negano, tutti: non c’era nessuna moto, in via Fani.

“Non tutti gli attentatori di via Fani sono stati individuati''.Ha ribadito dal canto suo Antonio Marini, pubblico ministero ai processi 'Moro ter' e 'Moro quater', nel corso del Tg2 dossier, intitolato '1978, l'inverno piu' lungo', andato in onda domenica 2 marzo scorso su Raidue alle 18. "Per anni- ricorda il pm Marini- i brigatisti individuati erano stati in tutto nove. Poi ne sono stati identificati altri due, che stazionavano in alto, per bloccare il traffico su via Fani: Lojacono e Casimirri… ". e poi tornando ai due attentatori non identificati, "dopo che la macchina, guidata da Seghetti, con a bordo Moro, riparti', fu seguita da altri due brigatisti a bordo di una moto Honda. Uno dei due sparo' contro un passante in motorino, un certo Alessandro Marini, che era stato fermato poco prima all'incrocio dalla Balzerani. E Marini, per evitare di essere colpito, fu costretto ad abbandonare il motorino e a buttarsi a terra. Ora, i brigatisti hanno sempre negato l'esistenza di questa moto, ma gia' il primo processo Moro condanno' i terroristi anche per il tentato omicidio di Marini. Riconoscendo, dunque, implicitamente, l'esistenza della Honda''.

Domanda: ma perché due erano travestiti da personale dell’Alitalia? Che senso aveva? Forse lo aveva nel caso che le persone in divisa non fosseroconosciute dagli altri e quello fosse il segno di riconoscimento concordato, giusto per evitare di spararsi fra loro….

A proposito del numero dei brigatisti presenti a via Fani sono illuminanti le considerazioni di Alberto Franceschini, fondatore con Curcio delle BR:

“...per il sequestro Sossi, che era abbastanza facile da compiere, nel senso che era una persona

che si muoveva senza scorta, il rapimento fu effettuato di sera in una viuzza. Semmai, si

presentavano problemi per la via di fuga, ma non tanto per la presa del soggetto. Comunque,

per compiere questa operazione, noi eravamo diciotto persone, stando anche a ciò che dice

Bonavita nella sua ricostruzione. Quindi, mi sembra assolutamente improponibile che

un'operazione militare complessa come quella di via Fani sia stata compiutasolo da dodici

persone”.

Ma si sa qualcosa di certo? Si sa che la macchina di Moro, una FIAT 130 non blindata, era la prima del piccolo convoglio e che dietro stava quella della sua scorta. Con lui c’è il caposcorta maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi e alla guida l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci. Nell’alfetta che segue ha preso posto la scorta: la guardia Raffaele Iozzino, il brigadiereFrancesco Zizzi e la guardia Giulio Rivera che la guida; tutti e tre appartengono alla Polizia di Stato, che allora si chiama ancora Pubblica Sicurezza. Percorrono tranquilli la via Fani, quando all’improvviso una 128 bianca che era parcheggiata a lato della strada, guidata da Mario Moretti, a marcia indietro taglia la strada alla 130 di Moro. Ricci non riesce a frenare e la tampona e viene a sua volta tamponato dall’alfetta della scorta. E’ un attimo e dal lato opposto della strada due uomini travestiti con divise dell’Alitaliasi avvicinano alle macchine. Dai cespugli davanti a un barescono altri quattro armati fino ai denti, mentre ai due capi di via Fani, altri brigatisti armati impediscono l’accesso dall’alto e dal basso. In un attimo il convoglio è circondato e il commando spara all’impazzata, in un fuoco incrociato, ben 93 colpi sulle due macchine. La scorta di Moro non fa nemmeno in tempo a rispondere. Solo Iozzino esce ferito dalla macchina in una eroica estrema reazione, con la pistola d’ordinanza in pugno, ma viene abbattuto. Nessuno di noi, credo, dimenticherà mai quell’immagine tremenda: quel ragazzo di 25 anni steso sull’asfalto con le braccia spalancate e le caviglie incrociate, come fosse in croce.

Ma come hanno fatto a non colpire anche Moro? Tutti abbiamo visto come erano conciate le macchine e quei poveri corpi. Come hanno fatto a non colpire Moro nemmeno di striscio? Se davvero fossero stati quei dilettanti che hanno sempre sostenuto di essere, non ci sarebbero mai riusciti. Infatti Moretti e Franceschini hanno ammesso durante un’intervista televisiva di qualche tempo fa, che le BR avevano gravi problemi con le armi e non erano assolutamente in grado di sparare con precisione. Il brigatista Bonisoli a Sergio Zavoli che lo intervistava in TV confidò “ Noi avevamo una preparazione militare approssimativa. C’eravamo allenati ogni tanto a sparare alle bottiglie, in periferia, il mio mitra si inceppò e io non sapevo che fare.” Dal mucchio di bossoli in terra si potrà ricostruire che a sparare furono: una Smith & Wesson calibro 9 parabellum (8 colpi), una Beretta 52 calibro 7,65 (4 colpi), una pistola mitragliatrice calibro 9 parabellum, una Tz 45 (5 colpi),una Beretta M12 (3 colpi), un Fna o uno Stern (49 colpi). Sono ben 45 i colpi che investono gli uomini della scorta; Ricci, Rivera e Iozzino hanno ricevuto il colpo di grazia. Si fa strada l’idea non certo peregrina che chi ha sparato i 49 colpi sia un professionista, anche grazie alla ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli, che si intende di armi e che afferma:

"Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi

faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che

ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in

quanto con la destra la impugnava e con la sinistra posta sopra la canna faceva in modo che

questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e

precisi".

Un professionista, la cui identità è ancora dubbia: il pentito calabrese Saverio Morabito sosterrà poi

che si tratta di Antonio Nirta, detto "duenasi" per la sua capacità di usare la lupara. Alcune testimonianze più recenti puntano invece il dito contro Agostino De Vuono, anch'egli calabrese ed esperto tiratore.

Che tutta l’operazione non sia frutto di improvvisazione del resto è palese. L’agguato è stato teso in modo perfetto: perfino il fioraio che staziona giornalmente all’angolo fra via Fani e via Stresa ( da cui è uscita la macchina guidata da Moretti) è stato messo nell’impossibilità di essere presente: le 4 ruote del suo furgoncino sono state squarciate durante la notte. Ma come facevano a sapere in anticipo che il percorso dell’auto di Moro quella mattina sarebbe stato proprio quello? Eh sì, perché dagli atti dei sei processi e delle inchieste viene fuori proprio questo: che il percorso della macchina fu deciso quella mattina e solo allora la scorta seppe che sarebbe passata per via Fani. Ma chi decideva i percorsi da fare? E chi ne era a conoscenza? E come mai non si è indagato in questa direzione? Se quel percorso non poteva essere previsto, come maine erano a conoscenza un gruppetto di esaltati brigatisti, ignoranti e disinformati? Perché questo è il quadro che ha dato di sé e dei suoi compagni ancora una volta Franco Bonisoli, in una intervista a Giorgio Bocca del 14 marzo del 1998. “….La nostra preparazione militare era modesta, qualche esercitazione nei 'covi' o in montagna, ma la coesione del gruppo e la determinazione era superiore a quella di un normale commando. È vero, molti dei mitra impiegati nell'attacco si incepparono, ma la rapidità della esecuzione, la complessità della operazione furono notevoli. Non è vero che la scorta fosse imbelle e impreparata. Il fatto che uno dei poliziotti riuscì a uscire dall'auto di scorta e a sparare nonostante la sorpresa lo dimostra". Questi disperati hanno creato un piano così perfetto? Incredibile. Parlare di fortuna in condizioni simili sarebbe eufemistico! E inoltre si badi bene: nessuno dei testimoni viene ferito, nemmeno il povero Marini sul suo motorino. Nemmeno Moro, nella sua macchina, a 50 cm dai corpi crivellati di Leonardi e Ricci. Poi il presidente della DC viene fatto salire su una macchina blu scuro, che si dirige verso via Trionfale, ma senza strattonamenti, senza fretta. Lo testimonia una donna presente alle ultime fasi del sequestro. Giuseppe Marrazzo la intervisterà per il TG2 e lei affermerà che Moro camminava affianco a un giovane, ma tranquillamente, non in modo concitato. Dirà anche che ha sentito distintamente la voce di una donna e qualcuno che gridava “lasciatemi!”. Altri testi parleranno di un uomo che parla in lingua straniera, in tedesco, pare. Ma le inchieste non approdano a nulla. Come si evince dalla relazione della Commissione Stragi presieduta dall’onorevole Pellegrino.

Nello stesso tempo, sul terrazzino di casa sua, al numero 109 di via Fani, il signor Gherardo Nucci ( o Lucci?) scatta una dozzina di foto della scena della strage, a pochi secondi dalla fuga del commando. Sua moglie è una giornalista dell’Asca, una delle cinque maggiori agenzie di stampa italiane, e consegna il rullino alla magistratura, dopo un colloquio col giudice Luciano Infelisi. Ma le foto spariscono e di loro non si saprà più nulla. Perché sono sparite: cosa o meglio: chi era stato immortalato in quel rullino? Per esempio il colonnello Camillo Guglielmi, della VII divisione del Sismi, legata a Gladio, una organizzazione paramilitare segreta della NATO, fondata per evitare la diffusione del comunismo nell’Europa occidentale? Dagli atti della commissione d’inchiesta infatti appare chiaro che alle 9 di quella mattina fosse lì, in via Stresa, a 200 metri dal luogo della strage. Interrogato dalla Commissione d’inchiesta rispose che era lì per un invito a pranzo a casa di un amico ( alle 9 del mattino?!?). Interrogato su questo Moretti rispose che il motivo di quella presenza era “possibilissimo”….già. Un dipendente di Guglielmi, Pier Luigi Ravasio, dirà davanti alla Commissione parlamentare che il suo capo sarebbe stato informato prima della data e del luogo del rapimento. E come mai non fu sventato, allora?? E come mai parte dei proiettili sparati in via Fani aveva una particolare vernice protettiva, come quella usata per le armi di Gladio? E’ solo un’altra coincidenza? Certo il Ravasio ne disse di cose alla Commissione stragi! Per esempio che il sequestro di Moro era stato commesso da una banda di delinquenti comuni, la coseddetta banda della Magliana (ma và?!)e “ Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, i rapporti bruciati "

Ma c’è anche chi sostiene che a essere immortalato sul posto fu un esponente di spicco di una cosca mafiosa calabrese. O almeno è quello che si deduce da una intercettazione telefonica fra Sereno Freato e l’on. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro:

Cazora: Un'altra questione, non so se posso dirtelo.

Freato: Si, si, capiamo.

Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo.

Freato: Quelle del posto, lì?

Cazora: Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perché uno stia proprio lì, mi è stato

comunicato da giù.

Freato: E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove

Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto

quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro.

Freato: Capito. E' un po’ un problema adesso.

Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?

Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire.

Cazora: Dire al ministro.

Freato: Saran tante!

Anche le domande sono tante: perché la DC teneva contatti con la malavita calabrese per cercare notizie su Moro? Cosa le faceva pensare che ne sapessero tanto? E come faceva la malavita calabrese a sapere delle foto e perfino che c’era immortalatoun “picciotto” che non si doveva sapere che c’era?? Ma soprattutto perché una volta che Cazora dà finalmente notizia del covo di via Gradoli, indicatogli da un certo Rocco, un calabrese malavitoso, dellanotizia se ne infischiano tutti??

Più ci si addentra in questa storia e più si complica. Continuamente si inciampa in domande inevase: tante, troppe in questo maledetto caso. Cominciamo con quella principale: perché proprio Moro? Di tutti gli esponenti della DC è quello che più di tutti ha cercato l’accordo con la sinistra e quella mattina del 16 marzo si stava recando, come abbiamo detto, alla Camera dei deputati per partecipare al dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti; questo nuovo Governo era costituito con l'appoggio del PCI, ampiamente favorito da Moro, che poi sarebbe entrato, a pieno titolo, nella maggioranza programmatica e parlamentare. Inoltre a giugno il presidente della Repubblica Leone avrebbe dovuto rimettere il mandato e il nome più accreditato del suo successore era quello di Moro. Il compromesso storico era quanto mai vicino e le destre erano invelenite. E non solo loro. Quando Moro era stato in visita negli USA era stato trattato malissimo da Kissinger: sua moglie racconta che tornò prima del previsto e sconvolto dagli insulti e dalle minacce ricevute. Kissinger non faceva mistero di disprezzare Moro e ne parlò persino in un colloquio con il leader cinese Den Xiaoping, durante il quale espresse la ferma volontà degli USA di non permettere alla sinistra europea di andare al governo dei rispettivi paesi. Parlò del Portogallo, ma anche dell’Italia e della Francia. L’unione della DC col PCI non piaceva agli americani, ma – per opposti motivi – neppure ai russi. E tuttavia l’impressione che se ne ricava è che questa storia sia una storia tutta italiana. Ma torniamo al 16 marzo.

C’è da chiedersi : perché tutti gli uomini della scorta furono uccisi ( addirittura fu dato anche il colpo di grazia, un gesto più militare che civile e poco in carattere con gente poco avvezza alle armi, come si dipingono gli stessi brigatisti)? Per un atto dimostrativo? Perché se no avrebbero reagito? O perchè il caposcorta Leonardi che era stato, fin dal 1957, istruttore principale della Scuola di Paracadutisti Sabotatori dei Carabinieri al centro militare di Viterbo, poteva riconoscere qualcuno? Sotto di lui, in vent’anni, erano passati tutti: ufficiali, sottofficiali, ufficiali superiori…. Era anche direttore di lancio, dunque conosceva tutti coloro che avevano frequentato quel centro di addestramento, che allora era l’unico in Italia. Se così fosse sarebbe un punto in favore di chi sostiene la teoria del complotto. Ma perché arrivare a questo, quando si poteva rapire Moro tranquillamente e senza tutto questo sangue? Spesso infatti Moro andava a passeggiareal Foro Italico, in compagnia del solo maresciallo Leonardi. E allora perché non rapirlo in una occasione come questa? O anche: perché non ucciderlo subito, insieme alla sua scorta? Questa è la domanda più interessante. Perché – a quanto detto da diversi brigatisti, come vedremo – tenerlo prigioniero non servì ad avere maggiori informazioni: molti brigatisti nemmeno sapevano dei verbali degli interrogatori. Ed è sempre il Bonisoli a dire che non c’era nelle cose dette da Moro, proprio niente di eclatante. Perché ci vogliono far credere che era una “ragazzata” e che qualcuno giocava a fare il terrorista senza sapere bene cosa stava facendo? Ma andiamo! Piuttosto c’è da chiedersi come mai i brigatisti non resero pubbliche tutte le cose dette da Moro: Gladio per prima. Ma non dovevano essere i Robin Hood della politica? Ma non dovevano mostrare al popolo quanto era corrotto il sistema delle multinazionali imperialiste? E allora perché tacere e nascondere le rivelazioni così importanti su cose di cui – appunto come Gladio – ancora non si sapeva niente? E perché55 giorni di prigionia?


La prigionia e i “piani d’emergenza”
ovvero: ancora una volta niente è quello che sembra

Moro è appena sparito nella macchina blu ( c’è chi parla di una FIAT 128 e chi di una FIAT 132) verso il suo destino, che una voce al telefono annuncia il rapimento e la strage della scorta. E’ possibile perché la linea telefonica è stata appena ripristinata. Infatti dalle 9 tutta la zona è rimasta isolata: una bella coincidenza e molto utile anche, infatti così nessuno può avvisare la polizia o i carabinieri di quanto sta avvenendo in via Fani. Sul ruolo della Sip in questo rapimento è stato scritto molto: come mai non riuscirono mai a rintracciare i telefoni dai quali venivano fatti i comunicati? Qualcuno sottolinea che il direttore generale della Sip allora era Michele Principe, un “fratello” della P2. Del centralino della Sip si occuò il commissario Antonio Esposito, anche lui della P2. Il suo numero di telefono fu trovato nell’abitazione del capo della colonna romana Valerio Morucci insieme a quello di Marchinkus.

Scrive Roberto Bartali “. Secondo il procuratore della Repubblica Giovanni de Matteo - ma anche per gli stessi brigatisti - l'interruzione venne provocata volontariamente, tutto il contrario di quanto sostenuto dall'allora SIP, che attribuì il blocco delle linee al "sovraccarico nelle comunicazioni". Su questo punto i brigatisti hanno affermato che il merito di tale interruzione era da attribuirsi a dei "compagni" che lavoravano all'interno della compagnia telefonica. Però coincidenza volle che il giorno prima (il 15 Marzo alle 16:45) la struttura della SIP che era collegata al servizio segreto militare (SISMI), fosse stata posta in stato di allarme, proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali, eventi bellici e...atti di terrorismo. Una strana premonizione visto che era giusto il giorno prima del rapimento di Moro.”

Nonostante questo ritardo la notizia del massacro e del rapimento arriva folgorante attraverso la radio ed è subito costernazione e panico. I sindacati indicono immediatamente lo sciopero generale. In realtà è solo un modo per prendere le distanze dagli assassini e nel contempo per mobilitare tutti i militanti di sinistra: le sedi della CGIL e le federazioni del PCI e del PSI vengono presidiate. L’incertezza regna sovrana e si temono colpi di stato militari con la copertura dello stato d’assedio. Ogni cosa sembra possibile, ormai, perché questo avvenimento terribile ha scaraventato tutti nel dubbio e nell’angoscia, destabilizzando il quadro politico generale. Ci si chiede con angoscia : ma chi sono questi brigatisti? E cosa vogliono davvero? E cosa farà lo stato?

Lo Stato nella persona del presidente del consiglio Andreotti non ci mette molto a dire che non tratterà con le BR. La DC si accoda e perfino il PCI. Forse la sua dirigenza ha troppa paura di venir confusa coi brigatisti, che qualcuno pensi che sta coprendo dei terroristi e così prende le distanze e si colloca in una posizione di intransigenza. Solo il PSI si dichiarerà disposto a trattare coi brigatisti e comincia a trattare in segreto con le BR. Una delle figure ambigue di queste trattative, un intermediario il cui ruolo resta ancora oscuro e che è passato indenne, nonostante un processo, è Lanfranco Pace, sì proprio quello che scrive sul foglio dell’ ex spia della CIA Giuliano Ferrara. Proprio quello che lo sostituisce nella rubrica TV “Otto emmezzo” mentre il titolare fa il Savonarola d’accatto nelle piazze. Poi, per favore, non parliamo più di coincidenze.

Ma torniamo sempre a quella mattina: mentre si dà l’annuncio al mondo dell’eccidio di via Fani, Mario Morettie immaginiamo anche altri brigatisti ( per logica almeno altri due e armati)portano via Aldo Moro. Lo hanno incappucciato? E’ seduto sul sedile? O è stato obbligato ad accucciarsi in terra, coperto da un plaid come racconta Morucci? Lo hanno legato?E le sue borse dove sono? La signora Moro ha testimoniato che suo marito non si allontanava mai senza ben 5 borse: una con dentro documenti riservati, una seconda con medicinali e effetti personali e le altre con ritagli di giornale e le tesi dei suoi laureandi. Sul luogo del sequestro ne furono trovate solo tre: i brigatisti avevano preso quelle due che erano più utili e interessanti. Se sapevano quali prendere voleva dire che c’era qualcuno fra i sequestratori che conosceva Moro benissimo, talmente bene da sapere cosa prendere. Se non le conoscevano, d’altra parte, la logica ci dice che le avrebbero prese tutte e poi si sarebbero disfatti di quelle inutili. Nessuno dotato di un normale buonsenso infatti si sarebbe fermato a frugarci dentro e a scegliere, in un momento in cui anche ogni secondo era prezioso. Corrado Guerzoni, che allora era il braccio destro di Moro, sostiene che nella borsa dei documenti riservati c’erano anche le prove dell’identità della persona che aveva cercato di coivolgere Moro nello “scandalo Lockeed”, che allora avvelenava il paese. Di questi e di altri, ma nemmeno delle borse vuote, si è mai trovato traccia nei covi BR.

Dunque Moretti & c. si stanno portando via Moro, così, in pieno giorno, in una macchina qualsiasi e lo portano non lontano: in via Montalcini, nel quartiere Portuense, vicino alla Magliana. Già. La Magliana: ritorna di nuovo questo nome, legato alla famosa banda del quartiere, coinvolta nella vicenda del processo Pecorelli. Di più: Francesco Biscione, nel suo libro “Il delitto Moro” sostiene che a pochi passi dal covo BR abitavano numerosi esponenti della “Banda della Magliana” e ne allega nomi e indirizzi. Ma pensa un po’ che coincidenza.

Ma torniamo a quel mattino, perché ancora siamo per strada: il massacro e il rapimento sono avvenuti, ma ora dell’ostaggio che si fa? A proposito del comeMoro arrivò in via Montalcini abbiamo diverse versioni. Scrive Bartali:

“Secondo un racconto fatto dai terroristi, il trasbordo dell'on. Moro sul furgone che doveva portarlo nel covo-prigione di Via Montalcini avvenne in piazza Madonna del cenacolo, una delle più trafficate e per giunta piena zeppa di esercizi commerciali a quell'ora già aperti, mentre il furgone che doveva ospitare il rapito (e del quale, al contrario delle altre auto usate, non verrà mai ritrovata traccia) era stato lasciato privo di custodia, in modo tale che se qualcuno avesse parcheggiato in doppia fila, le Br avrebbero compromesso tutta l'operazione.

Adriana Faranda in merito a questo particolare - anche di fronte alla Commissione stragi - ha

risposto che in caso di contrattempi di questo tipo Moretti avrebbe portato il prigioniero alla

prigione del popolo con l'auto che aveva in quel momento, un'affermazione alla quale non mi

sento di credere visto l'inutile pericolo che i brigatisti avrebbero corso e considerando anche che,

come hanno invece dimostrato, essi non erano affatto degli sprovveduti.”

Dunque – almeno nel racconto dei brigatisti – Moro è stato fatto trasbordare dalla macchina in un furgone e chiuso in una cassa. Il furgone era guidato da Moretti e seguito da una Dyane al cui volante era Morucci. Ma come mai si azzardarono a fare un cambio del genere a quell’ora del mattino? In una strada, con la gente che passava…. Sarebbe bastato che Moro gridasse enon staremmo qui a parlarne. Questi signori mentono, eccome. In realtà non si sono mai pentiti. Ci hanno solo preso per i fondelli. Quelli che davvero sapevano. Gli altri erano solo degli utili idioti sapientemente manovrati. Dei fanatici, convinti di fare la rivoluzione. Allora c’era gente così.

Mi ricordo – era forse il 1970 – un mio compagno di università: un ragazzo tranquillo che amava la pesca e il calcio. Cadde sulla via di Damasco dell’UCI m-l (più conosciuta come “Servire il popolo”) e cambiò completamente. Aveva lo sguardo allucinato e parlava per slogan come un pazzo e no: non era drogato, era solo indottrinato, plagiato, fanatizzato… lui e i suoi compagni fuori di testa facevano perfino il bagno al mare con la bandiera rossa, per fare un bagno comunista. Noi del Movimento Studentesco ridevamo come matti e li chiamavamo “ quelli del maestrale” ( il vento di Maestro viene segnalato nelle spiagge con la bandiera rossa del pericolo, perché porta al largo).

Tendiamo a dimenticare questi aspetti “folkloristici”, considerandoli marginali, grotteschi e ininfluenti, ma è un errore, perché proprio su questi personaggi plagiabili e sulla loro fideistica e ottusa certezza rivoluzionaria e antimperialista si basava la strategia di chi li ha usati come carne da cannone.

Provate a leggervi alcuni loro documenti o giornali dell’epoca: sono illeggibili, insopportabili nella loro fanatica vacuità, nel loro lessico a dir poco modesto e nei loro scritti infarciti di banalità. di slogan ottusi e di frasi fatte. Ma era la migliore manodoperaper chi volesse usarla per ben altri scopi. Bastava dire loro che era quello che voleva il popolo e che quello che facevano era per il bene della rivoluzione e contro il capitale imperialista e loro avrebbero fatto qualsiasi cosa. QUALSIASI. E sicuramente zitti e muti. Salvo poi a capire, col tempo, l’inganno e la beffa e a restare allora ancora più zitti, più silenziosi, più cupi.



Ma abbiamo lasciato il povero Moro dentro una cassa: sembra proprio che in via Gradoli non ci sia mai stato: la sua prigione era stata costruita, tramezzando una stanza, dentro l’appartamento di via Montalcini 8, di proprietà della brigatista Anna Laura Braghetti. L’appartamento era stato acquistato nel giugno del 1977 e la brigatista era andata ad abitarci nel dicembre di quello stesso anno, insieme ad un brigatista noto con lo psudonimo di ingegner Altobelli. Prospero Gallinari asserì poi di essere lui, ma gli inquilini che avevano visto l’Altobelli negarono che fossero la stessa persona. Solo nel 1993 venne fuori il nome di Germano Maccari, che fino a questo momento era assolutamente sconosciuto.

Sembra logico che a via Montalcini, nella sua piccolissima, claustrofobica cella, in quell’utero ostile e gelido, dove rimase rinchiuso per 55 lunghissimi giorni, il prigioniero Moro ci sia arrivato di notte, bendato. Sarà stato stanco, spaventato, angosciato, lontano dalle sue rassicuranti abitudini, dal calore della propria casa, dall’affetto dei suoi cari. Avrà sentito dietro il tramezzo la gente che si muoveva, i rumori rassicuranti della quotidianità altrui. Chissà se sapeva dov’era, oppure per ore lo avevano fatto girare a vuoto, chiuso in quel furgone, in modo che pensasse di essere chissà dove lontano. E chissà se aveva ragione Sciascia invece di credere che lui avesse indovinato di essere a Roma, in un qualsiasi condominio. In un condominio che ignorava che l’ing. Altobelli e gentile signora avevano un ospite importante.

In via Gradoli invece abitava Moretti con Barbara Balzerani. La cosa assurda è che Moretti ogni giorno faceva la spola fra i due appartamenti, tranquillo e indisturbato. Eppure di “soffiate” su entrambi i covi ce n’erano state da subito. Ma chissà perché nessuno le prese mai in considerazione.

Soprattutto colpisce tutto il polverone su via Gradoli: soffiate, sedute spiritiche, denunce anonime… è evidente che queste indicazioni venivano da dentro le BR, o da qualcuno che stava molto vicino. Ma non è chiaro il motivo e nemmeno il fine. Perché si voleva che venisse scoperto il covo di via Gradoli, se Moro stava in via Montalcini? Si potrebbe pensare a un depistaggio: si concentra l’attenzione lì, così non si cerca l’altro covo, ma è completamente privo di senso! Perché infatti attirare l’attenzione comunque su di sé? Piuttosto potrebbe essere invece il segno di una spaccatura in seno alle BR. E questa ipotesi si accorda con chi pensa a una doppia partecipazione e direzione di tutta l’operazione: una delle BR “autentiche” e una di infiltrati dei SS. E questo scollamento si evidenzierà meglio col passar del tempo e il doppio comunicato n.7 – come vedremo – ne è un esempio lampante.



Intanto il ministro dell’Interno in questo momento è Francesco Cossiga, che organizza subito un comitato di crisi: i nomi di quasi tutti i componenti di questo Consiglio si troveranno anche nelle liste della P2. Perfino Licio Gelli fa parte di questo scelto gruppo di “consigliori”. Cossiga ha appenaintrapreso un rinnovamento dei Servizi Segreti, decapitandoli dei loro più alti funzionari: in queste condizioni non sono in grado di essere d’aiuto. Come abbiamo già scritto parlando di Dalla Chiesa: il generale che conosce tanto bene le BR verrà tenuto fuori dalla vicenda fino alla morte di Moro, inoltreSteve Pieczenik, l’esperto mandato dagli USA in Italia, non crede nella liberazione dell’ostaggio: il pover’uomo è spacciato. Nessuno lo salverà. Ma lui ancora non lo sa e sperache qualcuno lo liberi. Non sa nemmeno che Cossiga ha approntato due piani: un piano Mike e un piano Victor. Mike: m come morto, se Moro viene ucciso eVictor, v come vivo, se il leader dc ce la dovesse fare. Ma in questo caso è previsto che verrà rinchiuso in un ospedale, isolato da tutti. Non ha scampo in ogni caso.

Non pare che ci fosse pronto altro, se non un vecchio piano anticomunista dell’ormai dimenticato governo Scelba degli anni ‘50, nonostante che il 1977 avesse rappresentato l’apice dell’escalation terroristica con 2000 attentati, 42 omicidi 47 ferimenti, 51 sommosse nelle carceri e 559 evasioni. Quello che appare con agghiacciante chiarezza invece è l’incredibile cialtroneria, la pochezza avvilente e senza professionalità di coloro che dovevano guidare le indagini e preparare una strategia per liberare l’ostaggio. Eh sì, perché nei casi di sequestro come questi, o si libera l’ostaggio con un atto di forza, o si tratta coi rapitori. Ma nel caso di Moro niente di tutto ciò è stato fatto. Nonostante le soffiate ripetute sugli indirizzi dei covi, nonostante telefonate e messaggi dei rapitori, nonostante i messaggeri che facevano da tramite ( vedi appunto gente come Pace), che bastava venissero seguiti, nonostante tutto questo sia durato per ben 55 giorni (!!!) dunque dando un ampio margine di tempo agli inquirenti, le forze di polizia coordinate dal ministro degli Interni Cossiga, sotto la supervisione strategica del Presidente del consiglio Andreotti, non riescono a trovare il rapito. E nemmeno si preoccupano di trattare coi sequestratori. E’ una follia incredibile! Lo guardano annaspare e disperarsi nel gorgo di una morsa mortale, senza fare nulla: lui è il capro espiatorio, la sua morte frenerà i voti alla sinistra e rimanderà ancora di un po’ lo sfascio della DC. Lui è la trasfusione di sangue arrivata al capezzale moribondo della grande balena bianca. Sugli spalti lividi del cinismo lo guardano gelidi e poi fanno pollice verso. E allora lui li morde con parole terribili e li maledice con un anatema agghiacciante e una profezia che sarà veritiera: “il mio sangue ricadrà su di voi!”

Cossiga tuttavia ancora oggi sostiene che non si poteva trattare e che loro hanno fatto tutto il possibile ( ma cosa???). Teatralmente dice che la colpa è sua se Moro è morto, ma che non poteva fare altro o il paese sarebbe caduto nel caos. Bisogna leggerla bene questa intervista e infatti in coda all’articolo fornirò il link necessario. Peccato che non si prenda anche le responsabilità penali di quella scelta sciagurata.

Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, afferma: “Le indagini di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni negligenze. Basti citarne una: la segnalazione giunta all’Ucigos al Viminale, una telefonata che comunicava i nomi dei quattro brigatisti, le auto che usavano. Bene questa segnalazione fu trasmessa dall’Ucigos alla Digos che era il corpo operativo per agire in quel momento con oltre un mese di ritardo. Quando la Digos ebbe modo di avere questa segnalazione immediatamente individuò uno dei brigatisti che tra l’altro era tenuto a presentarsi al Commissariato di Pubblica Sicurezza perché era in libertà vigilata. Immediatamente seguendo questa brigatista si giunge a individuare la tipografia di Via Foà dove le Brigate Rosse stampavano i comunicati. I comunicati dei 55 giorni. Se questa comunicazione fosse stata trasmessa un mese prima, forse si poteva con ogni probabilità individuare la traccia che portava ala prigione di Moro”.

Ma c’era chi stava trattando ed era sul punto di liberare l’ostaggio, come vedremo poi.


Comunicati delle BR e lettere di Moro

Il primo messaggio arriva dopo due giorni di dubbi e di angoscia, verso mezzogiorno di sabato 18 marzo. In una busta arancione di formato commerciale, poggiata sul tetto di un apparecchio per fotografie formato tessera in un sottopassaggio di largo Argentina, un giornalista del Messaggero, avvertito telefonicamente, trova cinque copie del comunicato e una foto Polaroid che ritrae Moro in maniche di camicia, seduto sotto una bandiera con la stella a cinque punte e la scritta "Brigate rosse". Circola una leggenda metropolitana su una citazione da “Il mio canto libero” di Mogol- Battisti in questo comunicato: è falsa. Non ce n’è traccia nemmeno negli altri. Avrebbe costituito una traccia anche questa citazione: Battisti, all’epoca, è considerato infatti un cantautore di destra e in certi ambienti estremisti lo si ascolta in assoluta segretezza.

I comunicati delle BR saranno in tutto 9 più il doppio comunicato n.7, falsificato da Toni Chicchiarelli, un falsario della banda della Magliana, morto poi tragicamente ( ma và?!). Molte, molte di più furono le lettere scritte da Moro e non tutte recapitate.

Il già citato Sergio Flamigni, deputato del PCI, che a suo tempo fu membro della Commissione stagi che indagava sul caso Moro, ne ha pubblicato una edizione completa.

In questo stesso 18 marzo a Milano due ragazzi giovanissimi: Lorenzo Iannucci (Iaio) e Fausto Tinelli vengono massacrati da ignoti sicari, in via Mancinelli. Il fatto che i ragazzi si stessero recando a casa di Fausto, in via Montenevoso al 9 è un dettaglio che non può significare ancora nulla per gli inquirenti. Infatti il covo delle BR ( o SS travestiti da BR?) di via Montenevoso n.8, proprio di fronte alle finestre di Fausto, ancora non è stato scoperto.

Forse è solo una coincidenza, ma noi non riusciamo a crederci. Non crediamo più nelle coincidenze, in questo maledetto caso. In questi giorni è uscito un libro di Maria Iannucci, la sorella di Iaio, su questa terribile storia.

A questo proposito, in coda al comunicato n.2 del 25 marzo 1978, le BR scrivono: “Onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli assassinati dai sicari del regime.” Frase interessante:

“sicari del regime”, molto interessante, dato che in quei giorni non si parla affatto di piste politiche: tutt’altro! Una frase su cui sarebbe il caso di riflettere meglio.

Commenti

Post popolari in questo blog

La scuola di Francoforte e l'analisi della personalità autoritaria

La battaglia di Monte Casale sul Mincio