VUOTI DI MEMORIA


Non è una novità, che l’uomo contemporaneo dimentica in fretta. Si infiamma velocemente, combatte battaglie con faciloneria salvo andare avanti se il conflitto non lo riguarda direttamente, abbandona il campo per pochi quattrini – che valgono sempre più di un’ideale – ma soprattutto è educato all’ignoranza coatta, alla rimozione forzata.
Fortunatamente non è sempre vero.
Ci sono eventi che premono come schegge impazzite sulla colonna vertebrale della Storia, che provocano un dolore fastidioso e continuo, lo stillicidio della proverbiale goccia cinese.
La strage di Piazza Tianamen è sicuramente uno di questi punti oscuri, di questi pozzi in cui tutte le regole di civiltà e umanità vengono sospese e gli attori in campo, i carnefici come le vittime, affondano nella follia.

È il 4 giugno 1989 quando la protesta di studenti, lavoratori, intellettuali e cittadini comuni contro il PCC (Partito Comunista Cinese), reo di grave diffamazione contro il popolo stesso e manipolazione e censura dei mass media, nonché di stuprare la democrazia e la libertà, sfocia nella tragedia: Deng Xiaoping, comandante della commissione militare centrale, tiene fede alla legge marziale dichiarata dal Partito facendo muovere dalla periferia fino alla tristemente famosa piazza, al centro di Pechino, l’esercito e i carri armati che aprono il fuoco, indiscriminatamente, sulla popolazione.
Ancora oggi il bilancio e le dinamiche della strage sono oscuri: le fonti ufficiali parlano di circa 300 morti, Amnesty International di più del quadruplo.
Si dubita che, in questo caso, come si dice, la verità stia nel mezzo.

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