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(l'annuncio dell'apertura del Primo Parlamento sulla "Gazzetta del Popolo" del 18 febbraio 1861)

ELEZIONI - PRIMO PARLAMENTO ITALIANO
VITTORIO EMANUELE II PRIMO RE D' ITALIA

Il 17 dicembre del 1860 era già stato annunciato lo scioglimento della Camera, e fissate le prime elezioni politiche generali per il 27 gennaio 1861 per consentire l'elezione di un Parlamento che rappresenti i nuovi territori italiani, riconoscibili in 443 collegi elettorali.
Vittorio Emanuele su insistenze di Cavour, era rientrato a Torino dal suo viaggio a Napoli e in Sicilia, il 29 dicembre.
I rimbrotti di Cavour al re, li abbiamo già letti nella precedente puntata. Per Cavour la sua presenza a Napoli - con l'assedio di Gaeta in corso - non era giustificabile "Se non va all'assedio di Gaeta, è bene che se ne torni a Torino". Ma era appunto la questione di Gaeta che tratteneva il Re, gli pesava come un'umiliazione lasciare il nuovo dominio con un Re che anche se non era a Napoli, era però a Gaeta, nel suo regno, a difendersi con i suoi uomini. Feste, Proclami, Plebisciti (e una guerra non dichiarata) minimamente potevano delegittimare un Re reso saldo dalle Potenze europee nei trattati di Vienna.

Inoltre i francesi, con l'ammiraglio TINNAN, (mandato da Napoleone III) erano nel golfo di Gaeta per impedire alla flotta italiana qualsiasi attacco dal mare. Che gioco conduceva l'imperatore francese erano veramente pochi a capirlo.

CAVOUR fino all'ultimo cercò di convincere il Re piemontese a scrivere a Napoleone chiedendo di perorare la sua causa, e intanto aveva mandato a Parigi il conte VIMERCATI. Ma da Parigi non giungeva nessun segnale, e il re cominciò un po' a preoccuparsi.
A metà dicembre inviò a Londra il suo aiutante di campo SOLAROLI per convincere gli inglesi a spingere Napoleone a collaborare. Il 20 dicembre JOHN RUSSEL (ministro degli esteri inglese) assicurava che l'imperatore francese avrebbe ritirato la flotta ma non subito, onde non si potesse dire che vi era stato forzato dai Piemontesi. Dal canto suo Napoleone non intendeva proprio ascoltare gli inglesi; comportamento che oltre che umiliare Torino innervosiva Londra, che sapeva che Napoleone non aveva del tutto rinunciato ai suoi progetti federali, mentre nello stesso tempo cercava di acquistarsi l'amicizia delle potenze tedesche e russe.
Napoleone mandò a dire, che non era vero che aveva preso impegni con lo Zar di difendere il Re di Napoli; ma che avrebbe atteso quindici giorni, e se il Borbone non accennava a cessare le ostilità, le navi francesi si sarebbero ritirate. Lasciando liberi i Piemontesi di attaccare Gaeta. Ma a quale prezzo si chiedevano le altre Potenze, quali accordi e quale tornaconto.

Anche PALMESTON mandava a dire al Re Sabaudo di non abbandonare Napoli fino a questa scadenza per poi conquistarla; ma mandò anche a dire dal SOLAROLI di fermare poi la guerra lì, di non pensare di fare la guerra all'Austria (per il Veneto), ma anche di fermare Garibaldi a fare questo tentativo, perché c'erano trattative del governo inglese con Vienna per la cessione del Veneto mediante un compenso; quindi guai a parlare di guerra in Veneto, in Dalmazia o in Ungheria.
Già il 3 dicembre il Re si era allarmato, sentendo parlare Garibaldi di Veneto e Ungheria, e scrivendo a Cavour era piuttosto preoccupato: "non possiamo mettere a rischio il nostro successo… deve essere impedito… se quello va là porta il mio nome con sé e poi Dio sa che proclami…"). (Gagnasco, op. cit. pag. 232).

Questo non significa che Vittorio Emanuele non mantenne rapporti cordiali con Garibaldi. Meno cordiali invece i rapporti del Re con Cavour. Tornato in Piemonte alla fine dell'anno, a gennaio cercò di andare incontro alle richieste di Garibaldi su certi suoi ufficiali che diceva maltrattati dai suoi ministri; cercò di calmarlo dicendo che avrebbe preso in considerazione i suoi uomini per il suo esercito, e quasi gli diede ascolto (purché non andasse in Veneto) quando Garibaldi si offrì di formare con i suoi uomini un esercito e andare a pacificare alcune zone del sud ancora in rivolta; gli disse che ci avrebbe pensato; e gli prometteva che avrebbe studiato la sistemazione dei suoi uomini e il suo progetto, anche se al ministero della guerra fingevano di ignorare queste richieste di Garibaldi.
Cavour li ignorava del tutto, nonostante avesse il RATTAZZI a perorare la causa del suo non proprio referente ma in ogni caso sempre molto legato all'eroe dei Mille, quindi sempre nemico acceso di Cavour, per questo motivo, oltre che per motivi personali.

Ma c'erano le elezioni il 27 gennaio, quindi il nuovo governo, e Cavour già largamente maggioritario con il suo fronte conservatore-moderato, sperava di ulteriormente rafforzarsi; poi avrebbe pensato seriamente ad interessarsi della questione delle agitazioni Ungheresi, che non gli dispiacevano per nulla. E seriamente pensava al Veneto, perché questo doveva venire prima di Roma, per non urtare Napoleone. Ma proprio questa politica troppo legata all'imperatore francese tornava a non attirarsi le simpatie di Vittorio Emanuele, che però sperava di risolvere il problema nel dopo elezioni con un governo senza Cavour.

PRIME ELEZIONI POLITICHE

Il 27 Gennaio si svolgono le prime elezioni politiche generali per la formazione del Parlamento Italiano. La legge elettorale è quella Piemontese del 17 marzo 1848, estesa negli altri Stati annessi, quindi fondata sul censo.
Sono iscritte al voto 418.696 persone, pari all' 1,9 per cento della popolazione di 23.360.000.
Sugli iscritti pesa la presa di posizione dei cattolici che hanno lanciato la parola d'ordine "né eletti, né elettori", creando una diserzione dal voto del 42,8 %, che riducono i votanti al 57,2% pari a 239.583. (il 0,9 degli italiani).

LA SINISTRA STORICA è formata da:
* democratici, vecchia sinistra costituzionale piemontese, Mazziniani e Garibaldini (che formano l'"Estrema")
* rappresentanti della borghesia industriale e commerciale, professioni liberali.
Mira a: formazione di uno stato laico, risolvere la "Questione Romana" e la "Questione Veneto" anche con forza; e mira al decentramento amministrativo, alle riforme democratiche e all'allargamento del suffragio

LA DESTRA STORICA liberale, laica, accentratrice è formata da:
* da Cavouriani e liberali moderati
* rappresenta la borghesia agraria e l'aristocrazia.
Mira a: formazione di uno stato laico, risolvere "Questione Romana" con diplomazia, accentramento amministrativo, politica economica del libero scambio.

Ci fu un tentativo di Cavour di ristabilire i buoni rapporti con il RATTAZZI e il DEPRETIS (che stavano ricostituendo la vecchia sinistra) ma le relazioni non si ristabilirono per nulla. Rattazzi, su insistenza del MINGHETTI, accetterà la candidatura alla presidenza della Camera, e dovrà aspettare la morte del Conte per ritornare ad essere preso in considerazione dal Re.

Vince la destra moderata che elegge 350 deputati, su 443 deputati-collegi (nelle precedenti, ma solo piemontesi del 18-11-1857, i deputati-collegi erano 204)

Abbiamo detto fondata sul censo; infatti, fra i deputati eletti nel nuovo parlamento contiamo 85 principi, duchi e marchesi, 28 alti ufficiali, 72 avvocati, 52 fra medici e ingegneri o professori universitari.
Tutti con una conoscenza superficiale del territorio annesso, ne' potevano averla, visto che fino a questo momento ogni Stato impediva all'altro reciprocamente di far conoscere le proprie ricchezze, le sue risorse, il tessuto sociale, il territorio, e di conseguenza il carattere della sua popolazione.
Lo stesso CAVOUR non era mai stato oltre Firenze. Resta famosa la lettera inviata a Cavour, da Vittorio Emanuele, nel suo viaggio nel sud a Napoli e in Sicilia; una lettera piena di osservazioni sui luoghi e la situazione "…è ancora in un caos, avvilito, trovasi come un cavallo che non sente più gli speroni" e che concludeva "…Quest'Isola è molto più avanzata che il Regno di Sardegna stesso e si direbbe essere già da molto tempo stata riunita all'Italia settentrionale... quante volte ho desiderato che lei si trovasse qua, onde toccasse con mano queste grandi verità, perché temo che da Torino non crede quello che le si dice" (lettera, riportata da F. Cagnasso, in "Vittorio Emanuele II", Utet, pag.230).

Il 18 febbraio del 1861 (tre giorni prima, la resa di Gaeta, con Francesco II che lasciava il regno per Roma) si apriva in Torino il primo parlamento italiano e Vittorio Emanuele lo inaugurava con il seguente discorso:

"Libera ed unita quasi tutta per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi appartiene darle istituti comuni e stabile assetto. Nell'attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli (Minghetti si adoperò proprio per questo, ma fu poi bocciato. Come leggeremo nel prossimo capitolo - Ndr.) che hanno consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché l'unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata. L'opinione delle genti civili c'è propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principi che stanno prevalendo nei consigli d'Europa. L'Italia diventerà essa stessa una garanzia d'ordine e di pace, e ritornerà strumento efficace della civiltà universale.
L'imperatore dei Francesi, mantenendo ferma la massima del non intervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine né la fiducia del suo affetto alla causa italiana.
La Francia e l'Italia, che ebbero comuni la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo indissolubile. Il governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici dei quali imperitura sarà la riconoscente memoria. Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore a segno d'onoranze verso di lui e di simpatia verso una nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione che l'Italia costituita nella sua unità naturale non può offendere i diritti né gl'interessi delle altre nazioni.
Signori Senatori, signori Deputati, io sono certo che vi farete solleciti a fornire al mio governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Così il regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione dell'opportuna prudenza.
Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo saggio così l'osare a tempo, come l'attendere a tempo. Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona; ma nessuno ha il diritto di cimentare la vita e le sorti di una nazione. Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei vostri conflitti civili. L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono in Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia. Una valente gioventù, condotta da un capitano che riempie del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani. Questi fatti hanno ispirato alla nazione una gran fiducia nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d'Italia la gioia che è presente nel mio animo di re e di soldato".

Presidente del Senato fu eletto il venerando RUGGIERO SETTIMO, che fin dal 1812
aveva combattuto per la libertà della Sicilia; presidente della Camera fu eletto, su proposta del governo, URBANO RATTAZZI.

Il 21 febbraio, Cavour presentò al Senato uno schema di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele a Re d'Italia, in un solo articolo così formulato:
"Il Re Vittorio Emanuele II prende per sé e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia".
Fu ritirato un emendamento che proponeva PARETO "Re degli Italiani"; quello del BROFFERIO "Re d'Italia proclamato dal Popolo Italiano" e fu pure respinto di aggiungere alla formula "…..per provvidenza divina e per voto della nazione".


Il disegno fu approvato al Senato il 26 febbraio con 129 voti contro 2; presentato alla Camera l'11 marzo, fu discusso il 14 ed approvato all'unanimità per acclamazione il 17

QUI Il documento
che segna l'atto di nascita del REGNO d'ITALIA firmato il 17 marzo 1861 .

VITTORIO EMANUELE volle chiamarsi II e non I
"perché gli pareva, qualora avesse assunto questo secondo titolo, commettere ingratitudine verso i suoi gloriosi avi i quali certamente avevano con il senno e con la spada preparato a lui la corona che ora gli cingeva il capo".

II 19 marzo per correttezza CAVOUR presentò le dimissioni sue e del ministero affinché il Re potesse chiamare i migliori uomini di tutto il regno a formare il Primo Ministero Italiano.
Sembra proprio che Vittorio Emanuele cercasse il modo di farne uno senza Cavour, ma come già detto, i fedeli al Conte (e al suo programma) erano tanti, e non fu proprio possibile questa manovra del Re, e l'incarico di ricomporre il nuovo gabinetto fu affidato nuovamente all'antipaticissimo ma quasi indispensabile CAVOUR (ma anche perché gli inglesi la gradivano), il quale prese per sé la presidenza del Consiglio, gli Esteri e la Marina e affidò gli Interni a MINGHETTI (bolognese), le Finanze al banchiere BASTOGI (livornese), i Lavori Pubblici a PERUZZI (toscano), la Grazia e Giustizia a CASSINIS (piemontese), l'Istruzione a FRANCESCO DE SANCTIS (napoletano), la Guerra a FANTI (emiliano), l'Agricoltura a GIUSEPPE NATOLI(siciliano) e creò VINCENZO NIUTTA (napoletano) ministro senza portafoglio.
Fu costituito il governo il 23 marzo e dal 25 marzo al 27 aprile Cavour con alcuni discorsi alla Camera cerca di definire la posizione del governo italiano sulle scottanti questioni.
(ne riparleremo più avanti - perché durante le sedute della Camera si intersecano altri fatti esterni, lontani dalla Camera)

ROMA E VENEZIA, COSTANTE PENSIERO
IL DIRITTO SU ROMA CONFERMATO AL PARLAMENTO ITALIANO
IL PROBLEMA MERIDIONALE - IL DUALISMO TRA IL CAVOUR E GARIBALDI
LA QUESTIONE DEI VOLONTARI - GARIBALDI E IL CIALDINI
MORTE DEL CAVOUR

Gran parte delle terre d'Italia si trovava finalmente riunita in un solo Stato, ma altre province erano rimaste fuori, e tutte, eccettuata una sola, sotto dominazione straniera. Erano: il Lazio, la Venezia con il Mantovano, la Venezia tridentina, la Venezia Giulia, la Dalmazia, il Canton Ticino, la Corsica, il principato di Monaco, il gruppo di Malta e la Repubblica di S. Marino. Tutte queste province non ancora liberate erano tutte care al cuore dei democratici; ma più delle altre la Venezia e il Lazio attiravano non solo loro ma anche gli sguardi dei liberali (Già Cavour pensava anche lui di far procedere in azioni parallele le agitazioni ungheresi con quelle del Veneto - che era poi un'idea di Garibaldi, impaziente di far qualcosa, resosi conto che la "Questione Romana" era molto più complessa).

Il Campidoglio e S. Marco erano i punti d'arrivo della politica italiana; le due questioni di Roma e di Venezia appassionavano gli animi e reclamavano una soluzione. Di questo problema fondamentale della politica del nuovo regno lo discutevano tutti, i mazziniani, gli aderenti al partito d'azione, i moderati, ma soltanto questi capivano quanto fosse difficile la soluzione di un tale problema che, affidato alle armi, come avrebbero voluto Mazzini, Garibaldi e i loro seguaci, poteva danneggiare gravemente l'edificio dell'unità appena iniziato e che perciò, secondo il Cavour e moltissimi altri, doveva essere trattato, studiato e risolto con molto tatto e con molta prudenza, d'accordo con Napoleone III e sapendo trarre profitto dalle condizioni propizie della politica generale europea.

Anticipiamo i fatti di un mese per poi ritornare a Marzo. Sulla questione Veneto-Ungheria, in aprile Cavour mandò a Londra SOLAROLI per tastare il terreno inglese su un intervento militare in Veneto appena l'Ungheria si fosse sollevata.
RUSSEL rispose molto chiaro: con Solaroli si lagnò prima di tutto di Cavour, e nei confronti del Re, gli disse che se attaccava il Veneto, avrebbe messo a repentaglio la sua dinastia ed il suo regno. La Russia (nonostante i cattivi rapporti dopo Crimea) avrebbe aiutato l'Austria, ed anche l'Inghilterra avrebbe impedito qualsiasi conflitto austro-italiano. Meno difficile sarebbe stata invece la soluzione romana, e che avevano già raccomandato a Napoleone di ritirare le truppe da Roma, perché l'Italia avesse la sua capitale.

Cavour da qualche tempo aveva lui in mente di risolvere amichevolmente la "questione romana" e già nell'autunno del 1860, per mezzo del dott. DIOMEDE PANTALEONI, di padre CARLO PASSAGLIA e del cardinale SANTUCCI, tentò d'indurre la Santa Sede alla rinuncia del potere temporale offrendole libertà e indipendenza completa e un assegno annuo per provvedere ai bisogni dell'amministrazione ecclesiastica; ma le trattative fallirono e gli intermediari furono vittime dell'ira del governo pontificio.

Il Re con lo spauracchio messo avanti da Russel, improvvisamente prese le distanze da Cavour, ma ne fu sconcertato, perché al governo se lui aveva rimesso il Conte era proprio per far piacere agli inglesi, ed ora erano proprio loro a diffidare! Tuttavia mandò a dire che lui non era dentro in nessuna cospirazione, e che ciò che aveva in mente Cavour lui non l'avrebbe mai permesso, non avrebbe mosso un soldato, e neppure un volontario, e a tale proposito aggiungeva che sebbene Garibaldi aveva più volte chiesto d'incontrarlo lui aveva rifiutato di riceverlo. Questo avveniva il 18 aprile, quando era ricomparso a Torino Garibaldi, che provoco un putiferio che racconteremo più avanti.

Torniamo alla Camera alla sua prima seduta di Marzo e ai due discorsi di Cavour per definire la posizione del suo governo.
Per disarmare l'opposizione, per poter dominare la questione romana con il portarla nel campo parlamentare, CAVOUR stimolò RODOLFO AUDINOT, deputato di Bologna, a interrogare il 25 marzo del 1861, il governo…
"…se, come correva voce, fosse veramente in trattative con la corte di Roma; per quale ragione la massima del non intervento, solennemente promulgata dalla Francia e dall'Inghilterra, costituisse offesa nella occupazione militare di Roma e del suo territorio; quali criteri avesse il ministero per risolvere il problema delle due potestà riunite nel Pontefice; e se non pareva opportuno, non solo affermare all'Europa il diritto d'Italia su Roma, ma insieme il proposito di rendere sicuro l'esercizio della potestà spirituale e di mantenere lo splendore del culto cattolico".

Nella discussione che ne seguì e alla quale presero parte molti deputati - EMANUELE MARLIANI, GIOACCHINO POPOLI, LUIGI TORELLI, CARLO BONCOMPAGNI, ORESTE REGNOLI, PETRUCCELLI della Gattina, DESIDERATO CHIAVES, VITO D'ONDES REGGIO, FILIPPO MELLANA ed altri - fu confermato il diritto dell'Italia su Roma e CAVOUR pronunciò due importanti discorsi, in cui affermò che…
"Roma doveva essere capitale del regno d'Italia, non nascose le difficoltà che ostacolavano il sogno dei patrioti italiani, costituite dall'atteggiamento della Francia e dei duecento milioni di cattolici, dimostrò che non era necessario all'indipendenza spirituale del Papato il potere temporale, ed espresse la sua fiducia nel patriottismo di Pio IX e nella vicina riconciliazione della Chiesa con lo Stato, e dello spirito di religione con i grandi principi della libertà".
Indicando questa via, deciso a procedere nel suo cammino, quasi ammonendo il Papato, anche in questa circostanza non solo spogliava il partito d'azione garibaldino e mazziniano della parte più bella del suo programma, ma faceva suo il concetto che per sigillare l'unità d'Italia fosse necessario Roma.
Erano state sempre per Cavour un eresia di Mazzini e un utopia di Garibaldi l'unione dell'Italia, dal Piemonte al Veneto e dalla Lombardia alla Sicilia. Ma opera iniziata non esitò ad accettare l'idea.

Abbiamo già fatto notare sopra, che nel frattempo all'esterno avvenivano altre cose. Garibaldi in aprile era ricomparso a Torino, alla Camera, per sollecitare i provvedimenti governativi per i suoi garibaldini (la narreremo più avanti questo burrascoso intervento), perché secondo lui tutti trattavano la sua questione con lentezza, era forse odio verso di lui? Ma prima di partire da Caprera in un discorso, molto irritato, aveva accusato che "molti nuovi deputati non corrispondevano degnamente alle aspettative della nazione. Vittorio Emanuele è circondato da un'atmosfera corrotta, ma speriamo di rivederlo sulla buona via… Egli ha fatto molto, ma purtroppo non ha fatto tutto quel bene che poteva fare".
Poi si era imbarcato per Torino, e l'irritazione diventò furibonda, quando sbarcato a Genova gli dissero che il governo aveva fatto perquisire i comitati per Roma e Venezia, per impedire gli arruolamenti clandestini.
Quando giunse il 18 a Torino trovò un ambiente molto ostile; deputati, ministri, erano tutti sdegnati per le sue parole offensive; il Re pare che dicesse al Rattazzi che se non fosse stato Re ma soltanto duca l'avrebbe sfidato a duello per l'ingiuria "come Re non posso chiedere certe soddisfazioni, ma mi pare che non mi occorre".
Rattazzi era piuttosto imbarazzato, essendo del suo partito, convinse Garibaldi a scrivere una lettera respingendo le accuse di avere offeso il Parlamento e il Re. Ovviamente a difenderlo furono quelli del suo partito ed anche il Ricasoli, ma il Re irritato rifiutò più volte di riceverlo (ma era il 18 aprile! -che abbiamo accennato sopra- cioè quando dopo la minaccia di Russel, il Re aveva preso le distanze da Garibaldi, e aveva distinto le sue responsabilità da quelle del suo ministro Cavour).

Era lo stesso giorno che alla Camera si svolgeva il violento urto tra GARIBALDI/CAVOUR,
e quello di GARIBALDI/CIALDINI.
A questo punto Vittorio Emanuele dovette intervenire e invitare i primi due a Palazzo e alla sua presenza dare spiegazioni.
Cavour espose la sua politica che voleva perseguire per Roma e per il Veneto. Garibaldi insisteva per regolarizzare i suoi garibaldini, formare con questi un esercito e agire come voleva lui.
La riconciliazione davanti al Re fu impossibile, e Garibaldi aggiunse pure che non avrebbe mai toccato la mano al Conte.
Ma le cose non finivano qui. La "guerra" continuò più feroce da entrambe le parti, come leggeremo più avanti.

Intanto erano proseguiti i lavori sulla questione romana e il 27 aprile, quasi all'unanimità, la Camera approvò quest'ordine del giorno del BONCOMPAGNI:
"La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confida che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del Pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del principio di non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia resa all'Italia".
Anche al Senato ci fu un'accesa discussione provocata da un'interpellanza del senatore GIUSEPPE VACCA ed essendo stato presentato da MATTEUCCI un ordine del giorno simile a quello del Boncompagni, l'alto consesso lo approvò all'unanimità.

Quello del completamento dell'unità italiana se era il maggiore non era però il solo problema politico della giovane nazione. Pieno di pericoli ed irto di difficoltà era il cosiddetto problema meridionale, che richiedeva tatto, conoscenza profonda delle complesse condizioni del Regno delle Due Sicilie, energia, equanimità, e che, per mancanza di tutto ciò, provocò conflitti, repressioni, dualismi, malcontenti, e si trascinò a lungo, lasciando, quando fu male risolto, tracce profonde che non sono state mai del tutto cancellate.
I sentimenti erano una cosa, la situazione reale era un'altra cosa.

" L'unanime sentimento - scrive il Bolton King - che aveva salutato la caduta dei Borboni, cessò ben presto. Esso era stato un miscuglio d'entusiasmo momentaneo, di speranze di vantaggi personali e di simulazione. La resistenza (durata 102 giorni) di FRANCESCO II a Gaeta incoraggiò i borbonici a rialzare la testa. La più parte dei grandi proprietari dell'Abruzzo, della Basilicata e della Calabria erano partigiani della dinastia decaduta, e le loro lagnanze contro la piccola nobiltà ricominciarono quando iniziava la lotta tra borboni e liberali.
Il grosso del clero nelle città e nelle campagne era favorevoli ai primi. I campagnoli poveri si accorsero che non avevano più governo, pronto a chiudere gli occhi sul saccheggio e l'estorsione: e quello che era appena stato chiamato "il comunismo brutale" della "jacquerie" formò una mostruosa alleanza con la reazione clericale ed aristocratica.

"Quantunque il brigantaggio nascesse da cause sociali, diventò uno strumento politico nelle mani di agenti venuti da Gaeta e da Roma, i quali eccitarono le bande a saccheggiare, per la causa del trono e dell'altare. Fino ad un certo punto il borbonismo divenne l'espressione del sospetto, ond'era circondato il governo piemontese, e delle divergenze fra il nord e il sud; e gli stessi distretti che avevano votato all'unanimità per l'annessione, come segno della caduta dei Borboni, accrebbero intanto la reazione, ispirata dalla loro causa. Gli operai della città erano spesso i soli liberali sinceri, e i liberali stessi non avevano un grande amore per il governo piemontese.
La storia e la politica piemontese, che avevano servito di faro al resto d'Italia, erano quasi sconosciute nel sud. Sul continente napoletano non c'erano mai stati troppo entusiasti dell'unità, e in Sicilia, quantunque l'antico spirito indipendentistico fosse più o meno frenato, era troppo potente perché fosse scomparso del tutto (lo ritroveremo perfino nel 1943! Ndr.) La Sicilia e Napoli avevano ambedue voluto sbarazzarsi dei Borboni; ma, dopo la loro partenza, accadde la reazione inevitabile. Le moltitudini, videro che il regno del millennio atteso era più lontano di prima e una contesa fra il nord progressivo e il sud stazionario succedette alla breve luna di miele".(Bolton King)

Se ci chiediamo perché scoppiò il brigantaggio solo dopo la conquista piemontese, la risposta è molto semplice; fu dovuto al fatto che le buone promesse dell'ingenuo (e magnanimo verso il Re) Garibaldi erano tali, che al suo apparire in meridione era inevitabile che le masse contadine o del proletariato urbano si schierassero dalla sua parte; simili promesse avrebbero fatto schierare le popolazioni contadine e proletarie di qualsiasi altra parte della penisola dalla sua parte (anche quelle del Piemonte, che non vivevano in condizioni molto migliori).
Queste promesse furono poi non solo disattese dal governo di occupazione, ma addirittura seguite da condizioni peggiori di quelle precedenti. Il fenomeno fu quasi contemporaneo alla discesa delle truppe di occupazione piemontesi al Sud, senza le quali i garibaldini (se non mantenevano le promesse) sarebbero stati sconfitti non solo dall'esercito borbonico, ma dalle stesse masse che avevano contribuito alle sollevazioni - cosa che non era mai accaduta prima.

L'errore più grande e gravissimo fu quello di accettare la spinta dei rattazziani di Torino, dei Mazziniani di Napoli, e dello stesso Mazzini, provocando la rottura con il Re e con il governo Cavour senza avere prima deciso che cosa fare, se... il Re e quindi il Cavour avessero respinto le sue imposizioni (come poi fecero).
I suoi repubblicani lo spingevano a misure più violenti, ma Garibaldi non osò più aderire (e con quali uomini? Aveva respinto al Volturno l'esercito borbonico, ma non lo aveva mica annientato! CIALDINI come vedremo più avanti, brutalmente e impietosamente glielo ricorderà), né seppe più riconciliarsi con il Re cercando di far dimenticare l'errore. Con la lettera al Re del 15 settembre ("o io o Cavour") il suo "nemico" convinse il Re a "montare a cavallo". Non solo, ma nel tentativo di questa maldestra riconciliazione, Garibaldi, i pochi repubblicani li perse per la strada. E i locali, le masse contadine, quelle di Napoli come quelle della Sicilia si resero conto che i garibaldini non combattevano più né per Napoli né per la Sicilia, ma combattevano per dare un regno a Vittorio Emanuele e che direttamente dal Piemonte erano sostenuti; perfino da certi "opportunisti" democratici (Rattazzi andrà perfino a guidare il governo!)
Quando il Re riaffermò bruscamente la propria autorità e la sua forza, Garibaldi ubbidì, e dopo Teano, Farini poteva scrivere a Cavour "Il Re mi dice che Garibaldi, pur facendo sempre i suoi sogni, si mostrò pronto ad ubbidire in tutto e per tutto… Perché volergliene se infine cede tutto al re onestamente?" (C. Cavour, La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia, Bologna 1949, vol. III, pag 207)

In Russia, CERNYSEVIJ, sul Sovremennik ("Il contemporaneo") -quando la popolarità di Garibaldi era diventata grandissima e si aspettavano che nascesse un "Garibaldov" si i era alla vigilia dell'emancipazione dei servi, che però dicevano "non si farà nulla se non viene "Garibalka"- scriveva profeticamente:
"Italiani che volete le riforme e la libertà, sappiate che voi potete vincere la reazione e l'oscurantismo soltanto facendo vostre le tendenze dei vostri compatrioti contadini oscuri e poveri e del popolo semplice delle città. O metterete nei vostri programmi dei rivolgimenti agrari, o sappiate fin da ora che siete destinati a perire per mano della reazione". E da Firenze dall'amico Friken riceveva:
"Sarebbe interessante e istruttivo, mi pare, indagare in quale maniera il movimento italiano nazionale quale era dapprima, si stia facendo piemontese, borghese, perdendo del tutto il suo carattere popolare".(Ob'edinenie Italii, cit. pp.230-231)
Questo perché anche a Torino la sinistra non reagisce, è lontana dal popolo, arroccata e chiusa nel parlamento e nei giornali, non ha più una politica propria, e il popolo miserabile, corre ad applaudire le celebrazioni dei fasti savoiardi, fa festa e applaude..

Sbagliato pensare che le ammirazioni venivano solo dalla "rossa" Russia, poiché anche nella liberale America l'entusiasmo suscitato da Garibaldi era salito alle stelle.
All'inizio erano solo gli "oriundi", mentre i locali, chi era clericale fu solidale con il Papato e chi era liberale per i Garibaldini (in entrambi i due schieramenti si raccoglievano sottoscrizioni). Poi accadde il "fattaccio"; gli svizzeri del papa, al massacro di cittadini inermi a Perugia, coinvolsero una famiglia statunitense; gli americani inorridirono e fu un gran colpo per le parrocchie americane, perché come corollario al fatto, la stampa si soffermò anche sulle cause degli avvenimenti in Italia, completandole con una lunga storia che iniziava dai moti patriottici dopo la Restaurazione. Ciò appassionò i lettori, che scoprivano così nei particolari la retrograda "situazione" italiana, ricollegandola alle loro passate lotte contro l'assolutismo britannico.

Nel settembre del 1860 (Garibaldi dopo la Sicilia era giunto a Napoli il 7), lo storico Eliot Norton mentre si stava svolgendo la campagna elettorale di Lincoln scriveva: "L'avanzata di Garibaldi è ora perfino di maggior interesse per noi della nostra campagna elettorale. E' bello vivere in un'epoca che può produrre un uomo come Garibaldi e in cui si svolgono avvenimenti quali quelli italiani. La storia non fu mai più interessante di adesso. La rinascita dell'Italia è già il più grande avvenimento dell'età moderna"
(Marrano, American opionion on the unification of Italy. 1846-1861 cit. p.278).
I giornali si buttarono a capofitto sulle vicende italiane, paragonarono Garibaldi a Washington. Già in giugno (Garibaldi era entrato a Palermo) il Times nel dare notizie degli avvenimenti in Italia li paragonava a quelli della guerra d'indipendenza. E il Daily Evening di San Francisco il 17 ottobre (vittoria sul Volturno) scriveva di Garibaldi: "Nella sua calma dignità, nella sua abilità amministrativa, nella sua coscienza e capacità di uomo di Stato, nella sua pura abnegazione, nel ripudio d'ogni vanità personale, nel suo orrore per lo spargimento di sangue inutile, insieme con il coraggio naturalmente insito in un comandante di uomini liberi, noi riconosciamo il vero tipo dei più grandi uomini, di coloro che stanno alla pari del padre dell'indipendenza americana".

Purtroppo c'è anche questa relazione di J.R. Chandler, che come rappresentante americano a Napoli, seguì da vicino la lotta tra annessionisti ai piemontesi e repubblicani di Garibaldi nella sua fase più critica il 6-26 ottobre (Plebisciti e Teano). Pochi giorni prima Chandler era convinto che con l'opera di Garibaldi l'Italia avrebbe realizzato da sola la propria unità con "will be defeated by diplomacy" ("con la sconfitta della diplomazia"), ma dopo il 6 ottobre (e abbiamo letto sopra quante cose accaddero e in quei giorni) si dichiarava sconsolato, e che "Garibaldi con il suo lavoro lasciato a metà sarebbe stato obbligato ad abbandonare la partita" ("with the empry praise of being an honest man of sound principles and pure motive and a great partizan general. Italy is fond of her Rienzi's and her Masaniello's -in operas- but she never wishes them to enjoy in their own person the victories thei achieve" (cit. ib. p.285 - Diplomatic relations between the United Styates and the Kingdom of the Two Sicilie. Istructions and despatches, 1816-1861)

La breve luna di miele, dopo Teano e le consegne a Napoli, per l'indole che aveva Garibaldi, fu piuttosto breve, e tornò ad essere "il Garibaldi", cioè contro tutti gli intrallazzi. Ma era ormai troppo tardi. E da solo non avrebbe potuto fare più nulla. Lo abbiamo visto, a Genova, il governo piemontese perquisì perfino i suoi volontari.
A render più difficile la situazione meridionale concorse poi il dualismo tra il Cavour e Garibaldi, che portò all'accennata burrascosa giornata del 18 aprile 1861.
Pochi giorni prima, l'11 aprile, il Governo aveva messo in disponibilità gli ufficiali garibaldini del cosiddetto esercito meridionale e si preparava a chiamare alcuni, ritenuti più idonei, nell'esercito nazionale e a licenziare gli altri. Garibaldi, con il proposito di impedire lo scioglimento dei volontari, partì da Caprera e il 18 aprile, vestito della camicia rossa e poncho, si recò alla Camera, dove il RICASOLI disse che "in nome d' Italia e per il bene della patria, confortato dalla presenza del grande capitano che aveva scolpito nel cuore di tutti memoria indelebile di pagine gloriose, e per far cessare un malinteso onde era nato un malaugurato antagonismo, invitava il ministro a spiegare i provvedimenti presi riguardo all'esercito meridionale e a dichiarare come intendesse procurare l'armamento della nazione, da tutti riconosciuto necessario per assicurare il nuovo regno da ogni offesa".

FANTI, ministro della guerra, rispondendo all'interpellanza del RICASOLI, disse che "non era per malanimo verso i volontari che si era opposto a un disegno di legge che tendeva a riconoscere la parità degli ufficiali dell'esercito meridionale e quelli del regio nazionale. Per ragioni di equità egli invece aveva controfirmato con Cavour un decreto con il quale s' istituiva con i volontari sotto le armi un corpo separato dall'esercito regolare con ferma di due anni per la truppa, speciale scala d'anzianità e d'avanzamenti per gli ufficiali, determinata da una commissione mista". Venendo poi a parlare del decreto dell'11 aprile, dimostrò "di non avere peggiorato le disposizioni dettate per il corpo dei volontari e spiegò i concetti ai quali si era ispirato nell'ammettere in servizio gli ufficiali degli eserciti napoletano e emiliano".
(era in sostanza una scelta di uomini più o meno a loro graditi)

Presa la parola GARIBALDI, si scagliò contro il governo:

"accusato di perfidia e slealtà, di avere osteggiata prima l'impresa dei Mille e di aver poi fatta a lui, dittatore, una lotta accanita e indecorosa, facendo sorgere quel dualismo che ora si lamentava e si voleva fare scomparire proprio da quei medesimi che lo avevano abbandonato e sacrificato con i suoi compagni ed avrebbero promosso una guerra fratricida se avessero ciò ritenuto utile ai loro fini".
Fu tale il baccano suscitato da queste parole che la seduta fu sospesa. Riapertasi, Garibaldi parlò dell'esercito meridionale, lamentandosi dell'ingratitudine del governo verso i valorosi che avevano combattuto contro i borbonici e rimproverando il ministro di non volere armare la nazione in previsione delle prossime lotte, quindi chiese che l'intera nazione fosse armata, riordinando prima di tutto i volontari e restituendo agli ufficiali i gradi e l'onore guadagnati sul campo di battaglia"
.

Subito dopo parlò NINO BIXIO:
"Io sorgo in nome della concordia e dell'Italia. Quelli che mi conoscono sanno che io appartengo sopra ad ogni cosa al mio paese. Io sono fra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia, ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor Conte di Cavour. Domando dunque che nel Santo nome di Dio si faccia un' Italia al di sopra dei partiti .... Per l'amor di Dio, non pensiamo che ad una cosa. Il paese nostro non è ancor compatto; queste discussioni ci pregiudicano nell'opinione dell'estero. Il conte di Cavour è certamente un uomo generoso; la seduta d'oggi nella sua prima parte deve essere dimenticata; è una disgrazia che sia accaduta, ma vuole essere cancellata dalla nostra mente. Ecco quello che volevo dire".

CAVOUR dichiarò di voler considerare come non avvenuta la prima parte della seduta, ma insistette "sull'inopportunità di mantenere in armi l'esercito meridionale, pur affermando che il ministero ne voleva tenere pronti i quadri in modo che, in caso di guerra, potesse subito il corpo dei volontari ricostituirsi e sotto la guida di Garibaldi, rinnovare le sue gloriose gesta". Il 20 aprile la Camera appoggiò il Ministero approvando, con 194 voti contro 79, l'ordine del giorno RICASOLI accettato dal Governo.

Il giorno dopo il generale CIALDINI, dicendo d'interpretare i sentimenti dell'esercito, inviava a Garibaldi una lettera che in qualche punto peccava d'ingenerosità ed offendeva la verità; e come abbiamo gia scritto sopra, in questa lettera fu implacabile oltre misura:

"Generale. Da quando vi conobbi fui vostro amico, e lo fui quando l'esserlo ed il dirlo era biasimato da molti. Schiettamente applaudii ai vostri trionfi, ammirai la vostra possente iniziativa militare e con gli amici miei e con i vostri, in pubblico ed in privato, sempre e dovunque, diedi testimonianza di stima altissima a voi, o generale; e mi dissi incapace di tentare ciò che voi avevate così magistralmente compiuto a Marsala. Ed era tanta la mia fiducia in voi che quando il generale Sirtori pronunziò funeste parole nel Parlamento, io ero sicuro che voi avreste trovato il modo di smentirle.
Allorché partiste da Caprera, sbarcato a Genova e giunto a Torino, credevo che venivate per questo soltanto. La vostra risposta, le vostre parole alla Camera, mi hanno portato a un disinganno penosissimo ma completo. Voi non siete l'uomo che io credevo, voi non siete il Garibaldi che amai. Con lo sparire dell'incanto è scomparso l'affetto che a voi mi legava. Non sono più vostro amico e francamente, apertamente io passo nelle file dei politici vostri avversari. Voi osate mettervi al livello del Re, parlandone con l'affettata famigliarità di un camerata. Voi intendete collocarvi al di sopra degli usi, presentandovi alla Carnera in costume stranissimo (camicia rossa e il poncho - Ndr); al di sopra del Governo dicendone traditori i Ministri perché a voi non devoti; al disopra del Parlamento colmando di vituperi i deputati che non pensano a modo vostro; al disopra del Paese, volendolo spingere dove e come meglio vi aggrada.

"Ebbene, generale vi sono uomini non disposti a sopportare tutto ciò, ed io sono con loro. Nemico d'ogni tirannia, sia essa vestita di nero o di rosso, combatterò ad oltranza anche la vostra. Mi sono noti gli ordini dati da voi o dai vostri al colonnello Tripoti, di riceverci negli Abruzzi a fucilate, conosco le parole dette dal generale Sirtori in Parlamento, so quello che voi pronunciaste, e su queste tracce, ora cammino sicuro e giungo all'intimo pensiero del vostro partito.
Esso vuole impadronirsi del Paese e dell'armata, minacciandoci, in caso contrario, di una guerra civile. Non sono in grado di conoscere cosa pensi di ciò il Paese, ma posso assicurarvi che l'armata non teme le vostre minacce, e teme solo il vostro governo. Generale, voi avete compiuto una grande e meravigliosa impresa con i vostri Volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerarne i risultati. Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni, quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina, e Civitella non caddero per opera vostra e 56.000 Borboni furono battuti, dispersi e fatti prigionieri da noi, non da voi.

"È dunque inesatto dire che il Regno delle Due Sicilie fu liberato tutto dalle vostre armi. Nel vostro legittimo orgoglio non dimenticate, o generale, che l'armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto più della metà dell'esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello stato bordonico...."

LA MORTE DI CAVOUR

La lettera del CIALDINI avrebbe potuto avere conseguenze incresciose, perché - lasciandosi vincere dall'ira e dallo sdegno - per quelle parole molti volontari volevano sfidarlo a duello. GARIBALDI invece rispose il giorno dopo, con molta serenità e dignità e, non opponendosi al desiderio di Vittorio Emanuele, ebbe l'incontro a Palazzo con CAVOUR (già accennato sopra) e si riconciliò non con lui ma solo con CIALDINI.
Quella con Garibaldi per l'esercito meridionale fu l'ultima lotta parlamentare che il Cavour dovette sostenere.
Colto da una diagnosticata encefalite (un gran mal di testa) si mise a letto negli ultimi giorni di maggio, ma una settimana dopo, il grande statista cessò di vivere; precisamente il 6 giugno, compianto da tutta la nazione, che perdeva in lui uno degli artefici maggiori dell'unità e dell'indipendenza, e riverito da tutta l'Europa la quale ammirava in lui il patriota, la tempra salda del carattere, la grandezza dell'ingegno e lo straordinario uomo di Stato che aveva saputo fare dell'Italia smembrata e fino allora servile ad ogni straniero una forte unità politica destinata -più avanti- ad avere uno dei primi posti nel panorama delle potenze europee.
Forse i sentimenti patriottici per arrivarci non sarebbero bastati, senza un'alta caratura politica di quest'uomo, anche se fu molto discusso in tutte le corti europee (compresi gli "amici" inglesi).

O perché "scippato" ai rivoluzionari o perché voluto ad ogni costo dai monarchici, questo primo posto, questa prima fase dell'unità, scatenò la guerra dei "precari equilibri" e fecero avvicinare e allontanare, unire e disunire, fare e disfare alleanze a molti stati europei, proprio nel momento in cui c'erano le gare al colonialismo o i rancori (spesso anche squallidi) nelle famiglie dinastiche. Che non evitarono all'Italia nell'arco di alcuni decenni, e poi dopo -con ambigue alleanze- di essere coinvolta in altri luttuosi conflitti.

Le lotte diplomatiche, delle grandi Potenze, erano già iniziate in questo caotico periodo 1859-1860. E sono sorte anche le più inquietanti leggende. L'appoggio degli inglesi a Garibaldi (le false promesse "Ma ciò che i ministri inglesi credono quasi certo è il fatto che voi vi siete impegnati in virtú di nuove annessioni a ceder Genova alla Francia"
(Cavour smentì, ma fu poco credibile)
"… adesso qualcuno ha messo loro in testa che si potrebbe ben domandare la Sardegna"
(Cavour e l'Inghilterra, II, 2, lettera n. 1139 e n. 1147, di E. D'Azeglio a Cavour datata 12 maggio 1860 da Londra).

In incognita (e questo è clamoroso!) perfino un fantomatico appoggio di Napoleone III a Garibaldi - "Che gli inglesi sospettassero una concorrenza sleale di Napoleone nella spedizione ne parla pure l'ambasciatore inglese a Napoli in una sua relazione a Lord Russell"
(Public Record Office London, Foreign Office 70/316, Elliot a Russell, Napoli 13 maggio 1860 n. 712, citata da A. Zazo pag. 289). E forse i timori di Carafa erano forse esatti:
"Se la spedizione di Garibaldi fosse stata offensiva alla Francia, essa non avrebbe avuto mai luogo"


"...Anzi sono istruito che una porzione del danaro fornito per attivare la spedizione di Garibaldi, sia stato somministrato dal principe Napoleone e da questo ministro dell'Interno, M. Billaut che rappresenta la politica rivoluzionaria dell'Imperatore... Mi si assicura che l'Imperatore ignori o finga di ignorare le manovre del cugino e del ministro. Questi contano sul pieno successo: in tal caso agire presso i Siciliani per farne formare un Regno indipendente in favore del principe Napoleone; forzare la mano dell'Imperatore per darvi il pieno consenso, sapendo che l'Imperatore è contrario ad un maggiore ingrandimento ed a nuove annessioni al Piemonte" (A.S.N., Francia, fasc. 476, Antonini a Carafa, Parigi, 11 maggio 1860) (Carafa ad Elliot - ib).
Sembra proprio che intorno alla Sicilia c'era una gran folla: rivoluzionari, inglesi, francesi, piemontesi, tutti a volersi spartire a fette la gran torta dell'appetitoso Regno delle Due Sicilie.

Poi i "grandi sogni": Cavour a La Marmora scriveva: "Ho lasciato Plombières coll'animo più sereno. Se il Re consente al matrimonio, ho la fiducia, dirò quasi la certezza, che fra due anni tu entrerai a Vienna a capo delle nostre file vittoriose". A Vienna ???
E sull'Unione? - Al punto 2 della stessa lettera "…scopo della guerra sarebbe la cacciata degli Austriaci dall'Italia, e la costituzione del regno dell'Alta Italia, composto di tutta la valle del Po, e delle Legazioni e le Marche" Qui Cavour non pensava ancora al Sud.

Quelle sopra sono solo alcune perle delle contraddizioni e delle trame. (vedi lettere qui)
Cavour indubbiamente fu un geniale improvvisatore (vedi Guerra di Crimea), ed agì quasi sempre con atti di temeraria audacia e spregiudicata prontezza (l'occupazione delle Marche fu una sfida non solo a Garibaldi ma all'Europa)

Di audacia: In data 2 giugno 1860 scrive a Nigra a Parigi: "Dans une dèpiche officielle que j'envoie aujourd'hui à Paris et à Londres je proteste d'avance contre toute intervention armèe dans les affaires des deux Siciles. Si, comme vous me le mandez, la France et l'Angleterre ne s'opposeraient pas à l'annexion de la Sicile, je suis dècidè à marcher droit au but.....
(Se, come voi mi comunicate, la Francia e l'Inghilterra non s'opporrebbero all'annessione della Sicilia, io son deciso a marciare dritto alla meta....Vogliate sondare il terreno e dirmi se devo andare a tutto vapore o arrestare la locomotiva) (lettera n. 878, 2 giugno, Carteggio Cavour - Nigra, vol. IV).

Di Cinismo: In data , il 25 giugno 1860, allo stesso Nigra il ministro piemontese cosí scriveva: "Villamarina me mande que le Roi de Naples est disposè a suivre les conseils de l'Empereur. Nous le seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaronis ne sont pas encore cuits, mais quant aux oranges qui sont dèjà sur notre table, nous sommes bien dècidès à les manger"
(Villamarina mi comunica che il Re di Napoli è disposto a seguire i consigli dell'Imperatore. Noi lo asseconderemo per quanto riguarda il continente, giacchè i maccheroni non sono ancora cotti, ma quanto ai portogalli [cioè la Sicilia, ndr] che sono già sulla nostra tavola noi siamo ben decisi a mangiarli) (A.S.N., Inghilterra, Carteggio, fasc. 661, 25 giugno 1860 lettera n. 924).

Sulla cessione Nizza-Savoia "....sulla sospensione del voto di Nizza. Il conte di Cavour rispose a Garibaldi che la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia non era cosa isolata, ma era "un fatto che rientra nella serie di quelli che si sono compiuti e che ci rimangono a compiere". (La Civiltà Cattolica, Serie IV, vol. VI, anno 1860, pagg. 350/351). La rabbia del nizzardo era già esplosa tre giorni prima. "Garibaldi ha ricorso alla Russia invocandone l'appoggio; ha proposto far dichiarare Nizza libera e collocata sotto la protezione degli Stati Uniti..." (Canòfari a Carafa, da Torino, 9 Aprile 1860, dispaccio n. 4536)
Risposta Russa: del ministro russo Gortchakow: "Du moment oú l'annexion de la Savoie à la France est le rèsultat d'une transaction diplomatique entre les Cabinets des Tuileries et de Turin, nous ne pouvons nullement nous en occuper" (Dal momento che l'annessione della Savoia alla Francia è il risultato di una transazione diplomatica tra i Gabinetti delle Tuileries e di Torino, noi non possiamo affatto occuparcene") (A.S.N., Russia, fasc. 1700, Pietroburgo, 14-16 marzo 1860)
(Cavour ci spera anche lui ma pensando all'Austria, lo zar non ha dimenticato il tradimento in Crimea di Francesco Giuseppe) : "…si potrebbe fare assegno sicuro sulla cooperazione armata della Russia").
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Cedimenti, sconforti, errori, li ebbe e li commise anche Cavour, come tutti i grandi statisti in lotta con le difficoltà di ogni giorno; giorni irti di ostacoli che però lui cercava, perché fin dal primo momento nel '48 quando entrò alla Camera, fu il signor "panciottino" che "vuol fare, vuol dire, vuol sapere tutto lui" (Vittorio Emanuele, infastidito), entrando perfino nella sfera personale del re (vere e propri attacchi sulla relazione con la "Rosina"). O sul "sacrificio"-matrimonio della figlia Clotilde con Plon Plon "Se V. M. non acconsente al matrimonio col principe Napoleone, con chi vuole maritarla? L’Almanacco di Gotha è là ad attestare che non vi sono Principi adatti per lei".
Scrivendo al Villamarina:
"....il Re è di carattere straordinariamente debole, non osa insistere con sua figlia. Vuole che solo io faccia la parte del tiranno, riservando per sè quella di padre nobile, affettuoso. Ma non importa: se il re è debole, io sono duro come il macigno e per raggiungere il santo scopo che ci siamo preposti, incontrerei ben altri pericoli che l'odio di una ragazza e le ire dei cortigiani" (Lettere di Cavour a Villamarina - F. Cognasso, Vittorio Emanuele II,  Utet, To 1942, pag. 142).

Cavour si compiaceva di un motto insegnatogli da un diplomatico "Via recta via certa", e non c'è dubbio che marciò diritto, e qualche volta a testa bassa, affidandosi alla fortuna (come nell'"Ultimatum" austriaco)

Il rimprovero maggiore che gli fanno i democratici è di essersi servito delle forze della rivoluzione; di aver scippato l'unità; di aver intimorito con l'esercito Garibaldi; di aver fatto il "deserto" intorno Mazzini, per poi brillare solo lui. Anche a costo di scatenare una guerra mondiale, e se necessario, coinvolgere persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo" e affermava: "se necessario, noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa".


"Gli inglesi erano addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore" cercasse in modo così deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati" (C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307 - G. Massari, Diario delle cento voci, Bologna 1959, pag. 116, 140, 142, 147,148, 206. - D. Mack Smith, Univ. Cambridge, Storia del Mondo Moderno, Garzanti, 1970-82, X vol, pag.734 )

Dove sarebbe arrivato Cavour? chi l'avrebbe fermato dopo la programmata guerra in Veneto? Fino a Vienna? come aveva promesso a La Marmora? Con lui forse Re ? E perché non Imperatore? Del resto il suo "amico-nemico" Napoleone III da giovane non era stato anche lui un rivoluzionario e usò i rivoluzionari per andare al potere?

Vogliamo inoltre dimenticare il tempestoso colloquio di Villafranca di poco più di un anno prima?
"In un impeto d'ira Cavour invitò allora il sovrano ad abdicare. "A questo ci devo pensare io, che sono il re", ribattè Vittorio Emanuele. E Cavour: "Il re? Il vero re in questo momento sono io!". "Chiel a l'è 'l re? Chiel a l'è mac un birichin!"("Lei il re? Lei non è altro che uno sfacciato!) scattò in piemontese il re e rivolgendosi a Nigra: "Nigra, ca lu mena a dourmi!" (Nigra, lo porti a dormire!) (Questa è la versione di Nigra. (Cagnasso, op, cit. in Bibliografia)

Ma abbiamo anche un'altra versione...di Kossuth (uomo di Napoleone, presente sul luogo) "All'armistizio di Villafranca, nel 1859, Cavour giunse trafelato a notte alta...a Momzambano. Nel tempestoso colloquio notturno con il Re, per le condizioni del trattato accettate (anche se era ancora da firmare) da Vittorio Emanuele,  perse ogni ritegno e rispetto del suo sovrano. Cavour era fuori di se' dal furore, e fu tale da chiedere le proprie dimissioni...Subito dal Re accettate. Nella sua indignazione egli arriva a dire al re che anche lui dovrebbe dimettersi, abdicare. Allorchè Vittorio Emanuele rispose che, in fin dei conti il Re era lui e che quello era affar suo, Cavour, perde le staffe, e lasciandosi del tutto andare nell'ira diventa perfino insolente
"il Re?  Gli italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono io !! ". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra
"Si è fatto molto tardi, portatelo a dormire!"
Il giorno dopo, presente io (Kossuth) e Petri (uomini di fiducia di Napoleone III - Ndr.) Cavour proseguì con  la propria furia e l' indignazione:
"E' terribile, terribile...Alla pace non si verrà!...Io mi farò cospiratore. Rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovrà attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai"  (Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol. 1, pagg.518-519).


Cavour cospiratore? Rivoluzionario? Lo avrebbe fatto. In Parlamento si alleò con la sinistra, con la destra, con i democratici quelli deboli deboli e quelli forti, con i ribelli, con tutti. Usò Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasformò in nemici di altri amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacciò un po' tutti, e s'inventò non le "unioni" ma le "annessioni" che volevano dire "sottomissioni",  il tutto per dare una soluzione monarchica all'unità italiana, e forse se fosse vissuto  (la impudente frase di sopra era già forse un incoffessato programma?)  farne un Regno personale... come Napoleone III. La Chiesa gli fu ostile, ma lui camminò diritto, imperturbabile; si disse coerente con la tradizione liberale (tutta sua però, dicono i nemici).  Morì a soli 50 anni. "Regnò" per 13 anni, sconvolgendo l'Italia. Se "Regnava" per altri 20, avrebbe sconvolto l'Europa. Lui l'aveva del resto promesso!

In un saggio del 1846, già forse presagio di una grande svolta politica in Europa, aveva trascritto questa frase di Lamartine "la libertà del mondo ha un piede sul suolo britannico, un piede sul suolo francese". Cavour forse ne voleva mettere uno anche a Vienna.

Nulla da meravigliarsi se diventò sospetta perfino la sua morte, ancora avvolta nel mistero

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano 1907
MACK SMITH, Storia del Mondo Moderno - Storia Cambridge X vol.
CONTE CORTI La Tragedia di Tre Imperi. Memorie e documenti
del Principe Alessandro D'assia, conservati al Castello di Walchen. 1951
DE VILLEFRANCHE G.M. Pio IX- Bologna 1877
G. BUTTA' - I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli.- Napoli 1875
N. NISCO - Ferdinando e il suo regno - Napoli 1884
F. COGNARSCO Vittorio Emanuele II - Utet 1942
PATRUCCO C. Documenti su Garibaldi e la massoneria - Forni 1914
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner, Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA

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